Translation 1.1 Elena Gan, Il giudizio del bel mondo

This is our blog's first translation, a short novel entitled Il giudizio del bel mondo or Society's Judgment (Суд света) by the prolific Elena Andreevna Gan (Елена Андреевна Ган, née Fadeeva, 1814-1842). Published in 1840 under the pseudonym "Zeneida R—a", this is an example of the "society tale" (светская повесть) in vogue at the time, a genre that involved a number of women writers. This translation in Italian is the work of Carmen Di Mario, who prepared the text as part of her impressive undergraduate thesis at the University of Rome several years ago. We are grateful to her for allowing us to publish it here. No other translation of this text is available in Italian and none to our knowledge exists in English. The text will be divided into a series of installments to make it more readable in blog format.




Elena Gan, IL GIUDIZIO DEL BEL MONDO (1840)[1]
(traduzione a cura di Carmen Di Mario)


[parte N. 1]


Er ist dahin, der süße Glaube
An Wesen, die mein Traum gebar,
Der rauhen Wirklichkeit zum Raube,
Was einst so schön, so göttlich war.
     Schiller [2]

Qual cor tradisti
Qual cor perdisti
Quést’óra orenda
Ti manifista.
     Romani [3]


   

— Ho l’onore di congratularmi con vostra signoria per il trasferimento! — gridò il corriere, dando un colpetto con gli speroni e fermandosi immobile sulla porta.

Il trasferimento! Questa notizia sorprese la nostra piccola compagnia nel momento più poetico della vita militare, — in tempo di pace, s’intende, — durante un tramonto di dicembre al tavolo da tè, quando il samovar bollente, riscaldando coi vapori l’aria gelata della casupola, unisce in una cerchia ristretta tutti i presenti, mentre il tè, riversandosi con un getto caldissimo nelle membra irrigidite, schiarisce i pensieri, scioglie le lingue, aggiunge vivacità e naturalezza ai discorsi. Proprio in quel momento la parola “trasferimento”, piombata su di noi come dal cielo sul tavolo da tè, scosse tutti i cuori con una forza elettrica. Dimenticato il tè, gettati i sigari e le pipe, fu tutto un domandare, un mormorare, un affaccendarsi, come se per il giorno seguente fosse stata fissata un’esibizione. Non prima che fosse trascorsa un’ora lo scompiglio si placò, tutti si sistemarono ai posti precedenti e si misero a discorrere con maggiore freddezza dell’esistenza futura.

Il cambiamento degli alloggi rappresenta un’epoca, nella vita militare, poi anche il trasferimento richiede un bel periodo, ma in quel momento ancora non ci si pensa. Gli ufficiali di solito si preoccupano, pensando: saranno molti i ricchi proprietari terrieri attorno alle loro future abitazioni, saranno ospitali, ameranno i militari? Il comandante munito di conti regola i profitti e le perdite dell’accampamento proprio in quel governatorato, mentre la moglie del comandante dispone mentalmente nelle salmerie le sue cuffie e i turbanti, se è contagiata dalla mania della moda, o i libri e gli spartiti, se ha la pretesa dell’istruzione, e con il pensiero, sistema in anticipo in un’enorme carrozza da campo i suoi bambini, le bambinaie, le cameriere e gli spitz.

All’incirca dopo due mesi cominciano i preparativi, l’affaccendarsi, ed ecco che arriva il momento atteso: i trombettieri, procedendo su cavalli grigi, danno il segnale, gli schieramenti di cavalli cominciano a muoversi, intonano una canzone briosa e s’incamminano con Dio per il lungo viaggio!

Le soste, i pranzi, i pernottamenti, i soggiorni si susseguono in una lunga serie, senza variare nemmeno il tempo dell’ozio; i dintorni mutano lentamente, come le scenografie in un teatro di provincia… Un pupillo di Apollo, che da ogni cosa trae abilmente delle comparazioni poetiche, paragonerebbe forse anche il nostro corteo ad un qualche avvenimento idilliaco della vita umana, ma noi, che conosciamo il trasferimento non attraverso le descrizioni pittoresche dei letterati ritiratisi dal servizio, ma di fatto, non possiamo trovare per esso un paragone più adatto di quello con una prosa noiosa e fiacca: dopotutto punti e virgole vivacizzano anch’essa!

Ecco l’ultimo trasferimento; la terra promessa è vicina! Si arriva, ci si sistema, ti ambienti; nuove persone, usanze, nuove relazioni, ogni passo in società è un passo sul ghiaccio gelato: tasti e provi dove è più sicuro mettere il piede. Del resto, i giovani non ci mettono tanto per ambientarsi: due, tre quadriglie e fanno amicizia, si affiatano, si innamorano; tutte le difficoltà restano dalla parte delle dame, delle mogli degli ufficiali e dei comandanti.

Nelle società amano così tanto i ballerini con le spalline luccicanti da non sottoporli ad un’analisi severa; le mogli dei proprietari terrieri e le donne di città li accolgono benevolmente, i proprietari e gli uomini di città li invitano ai pranzi e alle serate per accontentare le loro sovrane. Ma le mogli dei militari, oh, quella è un’altra faccenda! I giudici di genere femminile non guardano le proprie rivali, le nuove arrivate, con occhio del tutto benevolo, esaminano severamente i loro abiti, i tratti dei volti, i caratteri. Sono due nazioni estranee tra loro, due elementi eterogenei: non si fondono facilmente e velocemente in un solo tutto armonioso.

E che succede se, per disgrazia, una di queste signore appena sopraggiunte si distingue in qualcosa dalle altre, per bellezza, per talento, per ricchezza? Se la malfattrice-maldicenza, precedendola, porta sue notizie nei nuovi alloggi e ancor prima del suo arrivo suscita curiosità, provoca rivalità, ferisce l’amor proprio, causa il tormento dell’invidia; e quella furia scarna dal volto giallo avvelena in anticipo il dente contro la sconosciuta, ma già odiata vittima?

«Ma che cosa può scuotere così impetuosamente le passioni delle donne? Quale superiorità, quale differenza?» — diranno le mie buone lettrici. Ah, mio Dio! Lo ripeto: una piccola deviazione o l’emergere dalla cerchia generale dell’ordinario, un rilievo sul muro liscio della società. Immaginate la moglie di un tenente, di meravigliosa, stupefacente bellezza, la moglie di un capitano, nativa dell’America del Nord e trasportata dal caso dalle rive del Mississippi alle rive dell’Оka insieme ad una dote di un milione, o almeno con l’aggiunta di un grado qualsiasi, che sia una scrittrice, ovvero una donna, che abbia scritto un bel giorno, in un momento libero, due o tre racconti, che siano capitati in seguito sotto il torchio della tipografia.

«Che cosa?! La moglie di un capitano o di un tenente che fa la scrittrice?.. Ma è una sciocchezza! Non è così e non può essere!» mi obietteranno in molti. «È vero, la Genlis scriveva, però era una cortigiana, una contessa! La Staël scriveva, ma suo padre era un ministro: entrambe avevano ricevuto un’istruzione raffinata, ma la moglie di un cap…» E tuttavia supponiamo, anche per scherzo, che tra la folla degli ufficiali nuovi arrivati compaia, mano nella mano con uno di loro, una donna-scrittrice. Tutti sanno in anticipo del suo arrivo, si raccolgono voci su di lei, si raccontano notizie vere e infondate; alla fine lei è arrivata, è qui…

Ah! Se la si potesse vedere! Lei, probabilmente, porta sulla fronte l’impronta del genio; probabilmente non parla d’altro che di poesia e di letteratura; espone le proprie opinioni come se improvvisasse, adopera termini tecnici, porta con sé carta e penna per annotare le idee fortunatamente balenatele in mente!..

Con un simile pregiudizio ci si prepara ad esaminare la scrittrice nuova arrivata.

Passa una settimana, un paio…

— Ma chère, giovedì vieni da me a pranzo.

— E cosa festeggiate, l’onomastico?

— No, viene a pranzo da me Madame ***, sai, la scrittrice.

— Ah, molto lieta, vedremo che scrittrice è.

— E voi, Avdot’ja Trifonovna, volete conoscerla?

— Non per conoscerla, ma così, verrò a dare un’occhiata.

— Avete letto le sue opere?

— Ma no! Io non ce l’ho il tempo per leggere quelle sciocchezze.

— E che cos’è che ha scritto?

— Ma niente, bagattelle, che ha rubato, probabilmente, alla Revue etrangère.[4]

— Ah, no, Mašeročka, è pura imitazione di Marlinskij.[5]

— Eh, eh, eh! È lontana l’erba dal becco!

— Permettete anche a me di prender parte al vostro pranzo di giovedì! — esclama il cantore di tutti gli eventi solenni… del distretto di *** — Permettete, per amore della vostra bellezza! È da tanto che desidero incontrarla, giudicare il suo intelletto e i suoi talenti, porle alcune domande, esprimere francamente la mia opinione circa le sue creazioni, — hm… penso che accoglierà con gratitudine i miei consigli! — aggiunge con beata autoconvinzione, accarezzando i risvolti rosa del suo gilet di velluto azzurro.

— Ah, tesoruccio! Io ho sentito che se l’ispirazione la invade, ovunque ella sia, ad un ballo, in carrozza o sulla riva di un fiume, incomincia subito a declamare ad alta voce.

— Ah, se giovedì l’ispirazione la invadesse! — esclama un’ingenua signorina provinciale.

— E sapete, si dice inoltre che tutte le protagoniste dei suoi romanzi siano riprese da lei stessa.

— Come mai?

— Ma è semplice, chiunque prenda in mano una penna, bada, descriverà se stesso.

— Suvvia, com’è possibile questo, perdonate? Dopotutto le sue protagoniste non sono fatte con lo stampino! Questa è una ragazza di campagna, quella una dama del bel mondo, una è un’entusiasta, un’altra più fredda del ghiaccio, la prima è russa, la seconda è tedesca, la terza è una selvaggia, una è forse una baschira?..

— Eh… ma voi avete dimenticato, — esclama un perspicace poeta, — che lei non è semplicemente una donna, ma una donna–scrittrice, ovvero una creatura speciale, un mostruoso capriccio della natura, o più esattamente: un bastardo di sesso femminile. Dopotutto nascono perfino persone con la testa di uccello e i piedi di capra: perché dunque non supporre che la sua anima, creata a immagine e somiglianza di un camaleonte, si farà credere in un modo, ricopierà il ritratto di sé e prenderà un’altra forma?

— Ma… vedete…

— Allora, davvero… — pronunciano cantilenando due, tre signorine che credevano ciecamente a tutte le leggende del celebre poeta.

— E così, dite, per favore, — dice una rispettabile vecchietta, incanutita nella divina ignoranza delle cose di questo mondo, — dite, dunque davvero lei scrive come si stampano le parole nei libri? Ossia, per così dire, così come lei la scriverà, quella parola verrà stampata?

E alla risposta affermativa, manifesta il desiderio di vedere la donna che riesce a scrivere così come si stampa sui libri.

Arrivò il giovedì fatale, la povera scrittrice, con la sua anima innocente, si reca al pranzo, senza sospettare di essere stata invitata per essere messa in mostra come una scimmia ballerina, come un serpente in una coperta di flanella, che gli sguardi delle donne, sempre acuti nell’analisi delle qualità delle loro sorelle, per l’incontro con lei si erano muniti di un centinaio di lorgnette mentali per esaminarla per filo e per segno, dalla cuffietta alle scarpe; che ci si aspettava da lei ispirazione e parole libresche, pensieri sbalorditivi, voce da cattedra, qualcosa di speciale nell’incedere, nell’inchino e persino frasi latine mescolate con la lingua ebraica; perché la donna-scrittrice, secondo l’opinione comune, non poteva non essere colta e pedante! Ma perché mai è così? Non posso riferirlo!..

Dio mio, se si pensa che molti scrivono per tutta la loro vita e diffondono in franchigia fandonie per il mondo eppure a nessuno verrà in mente di rilasciare loro la patente di studiosi soltanto perché si danno alla scrittura!

Perché mai, allora, appena una povera scrittrice getta sulla carta una delle suddette fandonie, tutti all’unanimità la promuovono a colta e pedante?.. Dite, per quale ragione e a quale scopo una tale non richiesta ammirazione per il talento?

E poi, lei non riesce a legare con nessuno. Taluni immaginano che farà di loro un calco all’istante, e lo trasmetterà, ancora palpitante di vita, ad una rivista. Ad altri appare eternamente sulla sua bocca un sorriso satanico, negli occhi un spirito d’osservazione satirico, un’espressione da spia traditrice — persino lì dove, a dire il vero, ogni sorta di far la spia sarebbe attingere acqua dall’aria con una cucchiaia, — in lei è come se tutto non fosse così com’è nelle altre donne…e non so cosa, ma veramente c’è qualcosa che non va!

Giudicate dunque da questa scialba scenetta la millesima parte di quello che tocca alla povera scrittrice, che deve vagare per il mondo, deve essere ovunque un ospite indesiderato, deve fare eternamente nuove conoscenze. Non appena la si conosce in un posto, non appena ci si abitua a vedere in lei la donna, senza il duro aggettivo di “scrittrice”, non appena le brave persone la circondano di premure: ecco che all’improvviso c’è un trasferimento, il cambiamento degli alloggi… comincia da capo nuove conoscenze!

Dall’ultimo inconveniente, peraltro, ero stata messa al sicuro nella regione di Novorossijsk, dove ci avevano assegnato gli alloggi in una grande campagna demaniale, intorno alla quale, in un’area di dieci verste [6], non c’era nient’altro che steppa, paludi, sabbie e gli stessi villaggi demaniali.

Andare in visita da gente sconosciuta a cinquanta verste è abbastanza stancante e noioso! Non avendo trovato i padroni a casa, passare la notte nel loro villaggio, nella casupola sudicia di un contadino, accanto ai suoi familiari, discendenti e animali domestici, è poi il peggiore dei fastidi. Ed ecco a cosa fui sottoposta una sera, ecco a cosa devo i momenti più dolci della mia vita. Con una tale consapevolezza, come non aggiungere, sebbene tra parentesi: le vie dell’Altissimo sono infinite!


Adirata per la mia visita sfortunata, sedevo, stretta in un angolo sotto le icone, in attesa del tè, per il quale la padrona di casa faceva bollire l’acqua in una pentola unta. Intorno, sopra e sotto alla stufa, la sua famiglia si agitava e strillava. Più lontano, vicino alla porta, il padrone di casa parlava di qualcosa con un altro contadino sopraggiunto. Involontariamente, e, certamente, non per curiosità, cominciai a tendere l’orecchio verso i loro discorsi: il padrone di casa con le espressioni più buffe e adirate si lamentava dell’avarizia del proprietario terriero; il suo amico, al contrario, ricopriva il suo proprietario di tali benedizioni, parlava di lui con un fervore tanto improprio per un flemmatico ucraino, che m’intromisi nel loro discorso, desiderando conoscere il nome di quell’insolito proprietario-filantropo.

— Dmitrij Egorovič Vlodinskij, — mi rispose il contadino.

Vlodinskij?.. Quel cognome era come se mi fosse noto [...CONTINUA...]




NOTE

[1] Questo testo fu pubblicato per la prima volta sotto il pseudonimo “Zeneida R­—a” nella rivista Biblioteka dlja čtenie 38 (1840), 17–100 (“Russkaja slovesnost’”).

[2] “Se n’è andata la fiducia dolce / in esseri che il mio sogno ha partorito, / della ruvida realtà fu preda / quel ch’era prima così bello e divino” (Die Ideale [1795], in Poesie filosofiche, a cura di Giovanna Pinna, Milano, Feltrinelli, 2005, 85).

[3] In italiano nel testo; la strofa è tratta dall’opera Norma (1831), scritta da Felice Romani su musica di Vincenzo Bellini (Atto II, Scena 11).

[4] Revue etrangére de la literature, des sciences et des arts: rivista pubblicata dal 1832 al 1863 a Pietroburgo molto diffusa nei circoli mondani.

[5] Pseudonimo di Aleksandr Aleksandrovič Bestužev (1797-1837), noto scrittore, poeta e critico russo del periodo romantico.

[6] La versta è un’antica unità di misura russa corrispondente a circa 1 chilometro.


ILLUSTRATION

This well-known image of Elena Gan appears, among other places, on the page dedicated to her on the site of the Maksim Moskov Library.

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