Translation 1.3 Elena Gan, Il giudizio del bel mondo

[CONTINATO DA PARTE N. 2


Elena Gan, IL GIUDIZIO DEL BEL MONDO (1840)
(traduzione a cura di Carmen Di Mario)



[PARTE N. 3]

Una donna? Qui? Da sola?.. Tra le mura di un monastero certosino la sua apparizione non mi avrebbe scosso più profondamente. La guardavo con intensa attenzione, cercando invano di risolvere l’enigma della sua presenza. Camminò un bel po’ lungo il sentiero; alla luce del giorno che svaniva non riuscivo a distinguere il suo viso, tanto più che il mio letto era piuttosto lontano dalla finestra, ma dalla sua andatura e dalla rapidità dei suoi movimenti dedussi che era giovane, e già cercavo nella fantasia una sua somiglianza con i tratti di alcune bellezze che avevo conosciuto in passato. Si fece buio; lei sparì nel folto del parco; io rimasi di nuovo solo, con le mie supposizioni e le mie congetture.


Tuttora non riesco a spiegarmi le cause dello strano disgusto che avevo avvertito alle insistenti domande del mio servitore circa quella visione. Lui si voltò, io non gli dissi nemmeno una parola e preferii perdermi nel labirinto delle mie fantasie. Di notte, nel delirio febbrile, più di una volta mi sembrò che una delle simpatiche nonne del mio padrone si staccasse dalla tela, scendesse attraverso la finestra nel giardino, camminasse lungo il sentiero e poi, introducendosi nella cornice, assumesse di nuovo una posizione inanimata…

Di sicuro la strana impressione suscitata in me dall’apparizione della donna nel giardino si doveva ascrivere alla fiacchezza e alla delicata irritabilità dei miei nervi. Nel languore dell’inerzia la mia anima, gettandosi avidamente verso tutto quello che poteva procurarle il minimo svago, si spingeva con tutta la forza dell’immaginazione verso l’unico punto che l’aveva colpita con una novità e una sorpresa. Al mattino mi svegliai con il pensiero della bella che passeggiava: così me la figuravo; e confesso che, se sotto la mantella scura e il velo mi si fosse presentata una vecchia deforme, mi sarei considerato almeno per un po’ veramente infelice.

Il barone e il dottore mi fecero visita alla solita ora; la giornata trascorse secondo l’ordine stabilito; cominciava a far buio ed io iniziavo con impazienza ad aspettare il momento in cui il servitore mi avrebbe lasciato solo. Lui andò via e colei che attendevo apparve presto, sullo stesso sentiero, con lo stesso abito. Camminava come il giorno prima, a passi svelti, ora si avvicinava verso di me, ora si allontanava, ma invano io affaticavo la vista, sforzandomi di distinguere i suoi lineamenti: mi si presentava in modo poco chiaro attraverso la doppia cortina della lontananza e del tramonto, come il fantasma di un sogno fatto tanto tempo prima. Una volta sola il vento, dopo averle portato via il velo, lo spinse sul ramo di un albero; allora lei gettò da parte la mantella e, con un salto, piegò verso di sé il ramo su cui si gonfiava la mussolina. Quel movimento leggero, rapido, senza lasciarmi alcun dubbio sulla sua giovinezza, eccitò ancora più fortemente la mia curiosità. Come il giorno prima, lei andò via al sopraggiungere del buio; la seguii a lungo con lo sguardo: volevo indovinare in base alla direzione dei suoi passi dove si nascondesse la sconosciuta, da dove apparisse, ma invano. Addentrandosi nel folto degli alberi alla luce incerta del tramonto, sembrava che s’immergesse nella densità della nebbia della sera, si fondesse in essa come un’ombra immateriale e sparisse, lasciando solo la traccia di una tristezza inconsapevole nella mia anima.

Le ore notturne avevano destato in me sogni nuovi, avevano ravvivato una nuova forza dell’immaginazione, e il suo gioco aveva rianimato l’antica fantasia di un poeta tedesco, che un tempo mi aveva allettato, su una silfide del bosco resa umana da un favorito prescelto [1]… Non sei forse tu quella dolce illusione, creazione delle più pure particelle dell’aria e degli aromi dei fiori, sentimento senza carne, pensiero avvolto appena in forme trasparenti; non sei forse tu che appari al viandante abbandonato nel regno dei tuoi boschi per soffiar via l’affanno dal suo cuore, per addolcirgli l’aria amara della terra straniera?.. A lungo quei sogni infantili occuparono la mia mente; mi piaceva estraniarmi dalla realtà abbandonandomi ad essi quando vedevo la sconosciuta, mi piaceva dilettare con essi l’immaginazione inasprita dalla maturità. La vedevo ogni giorno, la mia silfide che passeggiava nel parco; qualche volta, se verso sera diventava più caldo, la mantella cedeva il posto ad uno scialle, il velo veniva gettato indietro e il venticello sollevava e muoveva nell’aria i suoi riccioli lunghi, ma l’ora e il posto della passeggiata non cambiarono neanche una volta.

Non riesco ad esprimere come mi affezionai, come mi invaghii della mia sconosciuta; con quale ansia aspettavo la sera, fingevo intenzionalmente di dormire e, quando l’anziano Christian andava via, con quale agitazione mi strappavo la coperta di dosso, mi sollevavo dai cuscini e, con la schiena appoggiata al muro, fissando lo sguardo in lontananza, restavo immobile finché non appariva lei. Lei! Quel nome mi piaceva, e mi accontentavo di esso senza desiderare di conoscere quello vero, perché i nomi sono stati inventati per distinguere le persone l’una dall’altra, e in quel periodo lei sola popolava tutto il mio mondo. Da quando andava via a quando appariva di nuovo contavo le ore del giorno e della notte; aspettavo solo lei, me ne inebriavo, la salutavo con il pensiero e l’accarezzavo con lo sguardo; pensavo a lei, la sognavo nei momenti di sonno sofferente.

In passato, una volta raffreddatosi l’entusiasmo della giovinezza, non ero stato affatto un sognatore, ma adesso la malattia e la solitudine mi avevano rigenerato. Separato da tutti i beni concreti, trovavo conforto nei sogni; mi consolavo della povertà di una vita essenziale con l’abbondanza e la varietà delle mie fantasie e per questo adoravo il mistero che circondava la sconosciuta come un campo dove crescevano liberamente i miei sogni.

In questa condizione inquieta e allo stesso tempo piacevole trascorsi più di dieci giorni, le mie forze si rinvigorirono, ma il dottore ancora non mi permetteva di alzarmi dal letto. Un giorno il sole primaverile brillava in tutto il suo splendore; avevo ricevuto notizie dalla Russia: mi sentivo così sollevato, così bene, come non succedeva da tanto tempo.

Alla solita ora lei apparve: l’abito azzurro ondeggiava da lontano, il velo era caduto sulle spalle e il suo viso era completamente scoperto. L’irrefrenabile desiderio di sbirciare i lineamenti della sconosciuta mi attirò alla finestra: mi alzai, barcollando e appoggiandomi ai mobili mi trascinai fino alla parete opposta e lì, inclinando la testa sui vetri freddi, trattenendo il respiro, mi misi ad aspettare il suo avvicinarsi. Arrivò: vidi una donna giovane, di aspetto grazioso, ma comune, con una fisionomia che nella folla sarebbe passata inosservata da tutti. In un primo momento, appena il mio sguardo avido cadde sul suo viso, rimasi quasi deluso, ma al secondo sguardo mi sembrò più affascinante. La seguii con il pensiero e con lo sguardo, e ogni volta che, giunta alla fine del viale, la sconosciuta ritornava verso di me, scoprivo in lei nuove bellezze, un tremito febbrile percorreva il mio corpo, la mano s’irrigidiva sulla testolina dorata del chiodo che sorreggeva la cortina, le ginocchia si piegavano, più di una volta persino la luce si offuscò nei miei occhi e non riuscivo a staccarmi dalla finestra: ero immobile come un prigioniero incatenato alla grata del carcere dallo spettacolo di un sole splendido che non si vedeva da tanto tempo, ero immobile e non staccavo gli occhi da lei. Dopo che fu trascorsa un’ora, la trovai quasi un incanto: la mia immaginazione creò in lei una bellezza invisibile agli sguardi degli insensibili, una bellezza che uno soltanto vede e adora, mentre gli altri, passando oltre, non la prendono in considerazione oppure dicono: «Sì, non è male!»


Alla fine sparì, allora anch’io mi avviai verso il mio letto e, indebolito, respirando a malapena, ma ancora pieno di incanto, mi gettai sul cuscino. Quella notte i ritratti delle belle non si risvegliarono più nei miei sogni, le silfidi non si librarono nell’aria, i pensieri e persino i miei sentimenti avevano ricevuto più consistenza, più chiarezza. Vedevo lei, distinguevo i suoi lineamenti; sembrava che scorgessi la sua anima, ora la conoscevo, io e la sconosciuta ci conoscevamo. Ma subito dopo un desiderio soddisfatto, presero a spuntarne in me altri cento: essere notato da lei, parlare con lei, dire… cosa dire?.. E di nuovo mi girava la testa, e di nuovo si confondevano le idee, si offuscavano…

La mattina seguente mi svegliai tardi, il sole già splendeva, la natura sembrava celebrasse l’arrivo della primavera: ero seduto sul letto e, mentre Christian sistemava la stanza, guardavo pensoso alla finestra e tracciavo mentalmente nelle correnti d’aria il suo ritratto, quando all’improvviso, del tutto inaspettatamente, vidi davanti a me l’originale. Un’esclamazione sfuggì involontariamente dal mio petto e nello stesso istante presi ad irritarmi, poiché avevo richiamato l’attenzione del servitore su di lei: volevo nasconderla da lui, da tutti, renderla invisibile affinché potessi appropriarmene da solo, ma era troppo tardi! Christian lanciò un’occhiata alla finestra, pronunciò un prolungato «oh-oh» e, prendendo di nuovo la scopa con cui spazzava la polvere, compiaciuto disse: — Niente! Non temete! È la nostra Frau Generalin…

— Quale Frau Generalin? — chiesi fortemente indignato, e subito dopo la mia domanda, fui costretto ad ascoltare una lunga storia riguardo al fatto che il barone, un tempo, aveva dato sua figlia in sposa ad un nobile russo che prestava servizio all’ambasciata, che lei era partita per la patria di lui ed era morta, e che poi sua figlia, la nipotina del barone, dopo essersi unita in matrimonio con un certo generale del quale non riuscì in nessun modo a pronunciare il cognome, era venuta in Germania con lui e viveva già da due settimane nel castello, ospite del nonno. C’è bisogno di dirlo? Ascoltai tutti quei dettagli con una sensazione di tristezza: essi strappavano crudelmente i fiori del mistero di cui la mia immaginazione aveva avvolto la sconosciuta! Avevo dato libero corso ai sogni, avevo dato libertà alla fantasia; l’anziano Christian li aveva inconsapevolmente dissolti e al posto delle affascinanti illusioni e visioni, al posto di tutta la poesia che aveva piacevolmente deliziato la mia anima, aveva posto un freddo, duro «Frau Generalin». Subito mi apparvero le consorti di molti conoscenti dei miei comandanti di reggimento e di brigata, nelle cuffiette, in elaborati chignon, che ballavano una danza antiquata con ufficiali per grado subordinati ai mariti, e mi prese la collera per il pur innocente Christian. Mi aveva disilluso al punto che la sera, prima dell’ora stabilita, gli ordinai di coprire la finestra con la cortina e restai con il viso rivolto al muro finché non fu notte, senza sollevarmi dai cuscini. Il giorno seguente persino il tempo, che mi appoggiava, si velò di tristezza: piovve a dirotto ed io, privato delle mie fantasie, di nuovo con la mente oziosa ed il cuore vuoto caddi nella noia di un tempo.

Intanto la mia salute si rinvigoriva visibilmente; mi alzavo, camminavo su e giù per la stanza e, nonostante tutte le obiezioni del medico, parlavo della partenza per la Russia.

Una sera il barone venne da me con un viso allegro e sfregandosi le mani disse: — Beh, mio caro prigioniero, — per scherzo mi chiamava così, — non vuoi lasciare per un paio d’ore la tua gabbia?.. Il dottore acconsente, andiamo; occupati soltanto un po’ della tua toilette: incontrerai una signora… ti preparo una simpatica sorpresa.

Il mio cuore cominciò a battere forte; chiesi di evitare la sorpresa, ma il caparbio vecchietto pretese con insistenza che lo seguissi, ed io obbedii malvolentieri, prevedendo che si trattasse dell’incontro con la Frau Generalin.

Non rimasi deluso. Entrammo in salotto e la vidi… Era vicino al pianoforte e conversava con il dottore. Mi presentarono; risposi al suo saluto con un inchino, desideravo ma non riuscivo a riprendermi dall’imbarazzo che si era impossessato di me, mi confondevo nei discorsi, tacevo o rispondevo a sproposito. Avevo paura di guardarla dritta in viso, sembrava che intravedesse nei miei occhi colui che spiava le sue passeggiate; alla fine il barone, probabilmente provando tenerezza per me, disse alla sua nipotina: — Su, Zenaida, ora diletta il nostro prigioniero, gli avevo promesso una sorpresa…

Lei si mise al pianoforte, eseguì un preludio a me noto e intonò una delle canzoni malinconiche della nostra patria. Da tanto tempo non sentivo né una parola russa né i suoni di una voce russa; il mio cuore sobbalzò. Il barone con i suoi stemmi e il castello, la sconosciuta e la Frau Generalin: tutto scomparve dalla mia mente… Mi precipitai al pianoforte, mi inebriavo avidamente delle languide vibrazioni della nostra melodia patria… Zenaida leggeva l'entusiasmo nei miei occhi, nel respiro irregolare. Comprese cosa succedeva nella mia anima e, forse per compassione per me o semplicemente per clemenza, a lungo non spezzò il mio incanto. Canzoni si susseguivano a canzoni, interrotte di tanto in tanto solo dalle variazioni che ripetevano le stesse melodie come un’eco montana. Alla fine intonò una canzone che in quel periodo conoscevano tutti, amavano tutti: Tra le vallate piane.[2] In essa c’era qualcosa di così simile alla mia condizione, alle mie sensazioni, che ogni sua parola scuoteva ogni fibra del mio cuore. Quando lei, pervasa da quella poesia semplice, ma profondamente commovente, cantò con un sentimento inesprimibile le parole:

     Riprendetevi tutto l’oro, tutti gli onori,
     ridatemi la patria, a me cara, lo sguardo, a me caro….

il sangue affluì al mio petto, persino le lacrime mi spuntarono negli occhi. Turbato, agitato, dimenticate tutte le buone maniere della società, corsi fuori dal salotto e mi precipitai nella mia stanza… Il barone e il dottore mi seguirono, cercando di capire cosa mi fosse successo. Quando spiegai loro la causa della mia agitazione, il buon barone mi prese per una mano e, stringendola amichevolmente, disse: — Beh, è molto comprensibile. Questa è Heimweh, nostalgia per la patria.

Ma il dottore, tastando il mio polso, mi ordinò di mettermi subito a letto.

Da allora vidi Zenaida ogni giorno. Presto la Frau Generalin, insieme a tutte le illusioni della fantasia, si cancellò completamente dalla mia memoria: conobbi in lei una donna con un’anima luminosa, bellissima, con un intelletto sublime arricchito dalle conoscenze, con un cuore puro, innocente, sensibile, che s’infiammava facilmente a tutto ciò che era nobile, grande e virtuoso, in breve conobbi una di quelle creature che s’incontrano così di rado, le quali, soltanto avvicinandosi, diffondono attorno a loro pace e felicità.


Passò inavvertitamente un mese; io mi ristabilii del tutto dalla malattia, ma già avevo smesso di pensare alla partenza per la Russia. Il buon barone si era affezionato a me e si rallegrava che non mi annoiassi più nel suo castello; il dottore promise di procurarmi tutti gli attestati possibili sul proseguire della mia malattia: restai. Un giorno succedeva all’altro: non li contavo più. In presenza di Zenaida il tempo per me confluiva, in modo un po’ bizzarro, in un unico, assoluto, sublime piacere. Non dividevo i giorni in ore, non pensavo, non vivevo; percepivo soltanto un sentimento, lo percepivo inconsciamente, inconsapevolmente, come se tutte le mie forze, vitali e mentali, si fondessero, scomparissero in un’unica sensazione, e tale sensazione fosse accostabile al solo piacere.

La primavera si schiuse in tutto il suo splendore; tutto sbocciò, cominciò a farsi verde. Oh, quante ore indimenticabili trascorsi accanto a Zenaida! Sempre e dovunque con lei, in salotto al suo tavolo da lavoro, in sala al pianoforte, in giardino sotto la tettoia degli alberi profumati… Quante volte, girando nei dintorni del castello, salivamo sulle montagne, scendevamo nelle gole, e quando lei si fermava e si estraniava dalla realtà ammirando la natura, io ammiravo unicamente lei!.. Nelle nostre lunghe conversazioni Zenaida menzionava raramente suo marito, e non parlava mai di se stessa: non sapevo nulla della sua infanzia, dei familiari, del matrimonio, della sua sorte, ma intuivo che non era felice. Nel suo sguardo verso la vita, in tutte le sue idee si rifletteva un costante e profondo avvilimento, che gettava un’ombra scura su tutto ciò che la circondava. Nei suoi discorsi non c’era quell’amarezza con cui molte persone, in un impeto di misantropia, avvolgono tutto e tutti: lei non biasimava né il bel mondo, né la gente, guardava con indulgenza le loro debolezze, talvolta, a tratti, era persino allegra, le piaceva ridere, ma questi erano soltanto bagliori fortuiti di un innato carattere allegro, soffocato e quasi annientato da ciò che il destino e le circostanze le avevano preparato per la seconda volta. Nel suo riso a volte si avvertiva qualcosa di sofferente; e più di una volta, mentre le labbra sorridevano, gli occhi conservavano la loro solita sfumatura di tristezza…


Sì! Compresi che la felicità non era il destino di colei che più di tutto meritava la felicità; non lo compresi né dalle sue parole, né dal buonsenso dell’intelletto, ma dall’intima consapevolezza che la sua anima luminosa, stremata dalla lotta contro la malasorte, incenerita nel fuoco divino delle sofferenze, non poteva accontentarsi di quella condizione rozza, volgare che nel bel mondo convenivano definire felicità. Sensibile e profondamente emotiva, lei aveva bisogno di un po’ di gioia che la pervadesse, ma aveva bisogno di una gioia pura, sublime, com’era lei stessa. Proprio quello che né il bel mondo, né le persone potevano darle!

E il mio primo sentimento verso Zenaida, la prima sensazione chiara e definita, manifestata nel turbinio delle mie sensazioni di allora, fu la compassione.

Raramente restavamo soli: il barone, il dottore o il vecchio confessore ci accompagnavano nelle passeggiate e assistevano alle nostre conversazioni; del resto, anch’io non cercavo occasioni per stare da solo con lei: cosa potevo dirle? Quale segreto rivelarle?.. Ero in quella fase fortunata in cui la ragione ancora non osa chieder conto al cuore di tutti i suoi moti, in cui un sentimento nasce, cresce e matura prima che l’intelletto lo sorvegli; e benché già l’amassi, benché l’amassi con ardore, con passione, tuttavia non era ancora arrivato il momento della mia consapevolezza interiore, non dicevo a me stesso: «Io amo questa donna!» Per questa ragione mi accontentavo appieno della sua presenza, della sua attenzione; nelle chiacchierate con lei mi limitavo ad ascoltare, raramente ribattevo, più di frequente ero io ad essere pervaso dai suoi pensieri… Per giunta amavo per la prima volta in modo sublime, sincero, con tutta l’energia di un essere ritemprato: la mia passione era estranea alle congetture. Essa non si raccordava agli schemi delle teorie dell’amore, non nutriva alcuna speranza, non attendeva il momento della dichiarazione; no, essa rifuggiva da se stessa, temeva di turbarsi e, come gli antichi maghi, amava attorniare il suo idolo e i suoi servigi di una solenne misteriosità.

Ma il tempo volava: passò la prima fase dell’ebbrezza, giunse il secondo periodo dell’amore, il periodo della mia rigenerazione. Grazie alle frequenti conversazioni con Zenaida si dileguava la nebbia che fino ad allora aveva gravato sulla mia mente; le mie idee si schiarivano sotto l’influsso della sua anima pura, giovane, mite, forte; io riacquistavo la vista come un cieco dalla nascita quando il medico rimuove la membrana dai suoi occhi; a poco a poco si spalancava davanti a me un mondo nuovo, inatteso; non un mondo di finzioni, di fantasie, ma un mondo di meravigliose verità, di sublimi passioni, di finezza, di poesia, di tutto quello che nobilita e allieta l’anima dell’uomo… Con quale devozione penetravo nel suo segreto! Con quale dignità mi ribellavo alla pochezza che mi opprimeva e, infine, rigenerato, gettai uno sguardo al mondo divino!.. In quel momento tutto mutò in me e intorno a me. Per la prima volta percepii in me un pensiero virtuoso ed energico, una forza di volontà, un sentimento leggiadro, e caddi ridotto in polvere, estasiato, davanti alla potenza del Creatore, comprendendo l’ammirevole perfezione della creazione, l’enigma del nostro essere, la sublime predestinazione dell’uomo. Divenni migliore, più nobile, più buono verso le persone, più soddisfatto di me stesso… Ad ogni respiro assorbivo in me una nuova vita, mi animavo di una compassione nuova verso tutto ciò che mi circondava, e quella compassione, trasmettendosi alla natura intera, destava la sua eco. Tutto ciò che respirava e non respirava riceveva il mio saluto, tutto rispondeva in una lingua per me comprensibile… Sembrava che la mia anima, rinata appena alla vita, illuminasse tutto il mondo con i raggi della sua bellezza, ed esso, riscaldato dal suo calore, come la statua di Memnone[3], rispondesse al suo primo raggio con un’armonia celeste.

Prima non sapevo quanto fosse confortante un orgoglio adeguato dell’autocoscienza e, nonostante il mio amor proprio e l’indipendenza assoluta, dipendevo come uno schiavo dall’opinione della gente; più di una volta avevo agito contro la mia stessa convinzione per via di una meschina competizione con i compagni in una meschina filosofia travisata o, per meglio dire, riformulata ai bivacchi da baldanzosi fantini e spadaccini. Prima non sospettavo nemmeno dell’esistenza di quelle consolazioni donateci dal Signore nel nostro io intimo e accorto. Esse non risiedono in quel vano istigatore delle passioni umane, instancabile adulatore delle nostre azioni reali e immaginarie che vive nella lingua in perpetuo dissidio con la coscienza e va strombazzando nelle orecchie di tutti delle fole che consolano solo il proprio ego. Esse si trovano invece nell’inflessibile perspicacia e nel giudizio che non si sottomettono né alle leggi del bel mondo, né alle imposizioni del destino; risiedono nell’irremovibile e incorruttibile custode del principio divino, che alla nascita ci viene donato dal Signore per il nostro cammino di vita. Questo seme divino, senza cadere tra le spine e sfuggendo agli uccelli rapaci, matura nel cuore dell’uomo come suo sostegno nell’oppressione, gioia e quiete nelle disgrazie più nefaste.

Di tanto in tanto, già nel primo periodo della mia adolescenza, guardando l’armoniosa maestosità della natura o provando simpatia per le creazioni dei grandi poeti, percepivo in me una misteriosa inquietudine, una nostalgia per qualcosa di familiare. Provavo il desiderio di scrollarmi di dosso il peso della vita materiale e di cercare rifugio nelle sfere meno soggette al calcolo, alle ambizioni, nelle sfere libere dalla tirannia, dalle mode e dalle buone maniere, dai loro stolti legislatori, dalla cieca accondiscendenza dei loro saggi esecutori; ma era un desiderio fosco, fugace, che somigliava a quella sensazione inconscia che avevo provato in Svizzera quando, gironzolando per le montagne, stanco e solitario, mi sporgevo casualmente su un dirupo da un’altezza vertiginosa e, accarezzato da un silenzio sepolcrale, da un buio di un’abissale profondità che non si avvertiva dal giorno della creazione, tentavo di slanciarmi nelle sue viscere, con uno strano sussulto al petto, con un fremito, come se presagissi la beatitudine. Quel desiderio, balenando appena in un’idea priva di forma e priva di forze per essere realizzata, era svanito sul punto di nascere; un secondo pensiero mi attirò di nuovo nel vortice non meno pericoloso, ma non così distintamente visibile, della vita e del bel mondo.

In seguito persino quegli impeti si placarono nella mia anima; in essa il sentimento del bello si era attenuato a causa dei continui scontri con persone sorde e cieche verso tutto ciò che è nobile e raffinato; i miei pensieri magnanimi si affievolirono, le idee diminuirono e, infine, vennero del tutto limitate dalla ristretta cerchia della vita al bivacco.

Adesso grazie alla presenza di Zenaida si erano ridestati in me sentimenti infranti dal bel mondo, l’energia della volontà aveva riacquistato vigore; il pensiero, rimasto a lungo inerte nella squallida quotidianità, si era risvegliato, ardeva di una forza nuova, ma io non aspiravo più al futuro, non languivo di un’ardente e smaniosa curiosità il cui scopo noi stessi non riusciamo a comprendere; grazie alla sua presenza si era placato in me l’anelito all’irrealizzabile, non c’era posto per l’angoscia e gli impeti, avevo trovato tutto, avevo capito tutto, mi rilassavo, m’inebriavo del presente, il presente riempiva ogni momento dell’esistenza, ogni particella del mio essere con consolazioni celesti.

E tuttavia, la passione, dopo aver risucchiato la mia mente e aver cinto il mio senno con una forza per me stesso inimmaginabile, si nascose come prima dentro di me in uno strano torpore. Per Zenaida avevo dimenticato del tutto gli amici, i familiari, i doveri, avevo dimenticato me stesso, vedevo e avevo in mente soltanto lei, ovunque, sempre lei sola, ma, come un bimbo, che dopo essersi graffiato il viso, aggrotta le sopracciglia mentre passa davanti a uno specchio per non vedere i suoi graffi e il sangue, anch’io avevo paura di scrutare nella mia anima, evitavo tutte le riflessioni, tutti i conti con me stesso, come se temessi di irrobustire la mia passione attraverso la sua consapevolezza, prevedendo che il suo risveglio sarebbe stato terribile…

Ben presto il caso vanificò tutti i miei accorgimenti.

[...CONTINUA...]




NOTE

[1] Riferimento a Ondina (Undine, 1811) di Friedrich Heinrich Karl de la Motte Fouqué. 

[2] Canzone di Aleksej Merzljakov (1778-1830), poeta e critico letterario russo.

[3] Statua del faraone egiziano Amenhotep III che al sorgere del sole emetteva un suono simile alla voce umana.

ILLUSTRATIONS

1. The estate of A. Ch. Benkendorff near Revel' (courtesy of Marina Sidorova, Sady i vremja: 5000 let landšaftnogo iskusstva).

2-3. V. I. Gau, watercolor "Portrait of an Unknown Woman in a Blue Dress" (1847) (courtesy of L. Karnauchova and S. Archangel'skoj, "Pridvornyj živopisec V. I. Gau", on the site Naše nasledie) and "Portrait of a Lady by a Piano" (1846) (courtesy of Newsland.com).



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