Translation 1.2 Elena Gan, Il giudizio del bel mondo

[CONTINATO DA parte n. 1]


Elena Gan, IL GIUDIZIO DEL BEL MONDO (1840)
(traduzione a cura di Carmen Di Mario)


[parte N. 2]

Vlodinskij?.. Quel cognome era come se mi fosse noto, non sapevo dove, né quando l’avevo sentito, sapevo solo che era stato molto, molto tempo prima. Continuando la conversazione, appresi che questo Dmitrij Egorovič Vlodinskij era uno scapolo che era stato molto ricco, ma fin dagli anni della giovinezza aveva distribuito tutta la sua proprietà ai figli di sua sorella, lasciando per sé non più di cinquanta anime; che una delle sue nipoti, rinunciando, così come lui, al matrimonio, si era stabilita con lui e si era fatta carico di tutte le faccende domestiche; che lei lo vezzeggiava e lo amava come un padre e che quelle strane persone vivevano come eremiti, rifiutando completamente qualsiasi relazione con il mondo.


Ecco cosa appresi dalle parole ingarbugliate del contadino, quando, immaginando di chiedergli il nome della nipote di Vlodinskij, udii il nome ed il cognome di una ragazza che conoscevo da tanto tempo, insieme alla quale ero cresciuta ed ero stata educata fino all’età di quattordici anni.

Quella stessa sera il mio interlocutore fece da Mercurio per una corrispondenza amichevole, e poiché Vlodinskij viveva ad un paio di verste dal mio alloggio, il giorno dopo, all’alba, ebbi una risposta, un invito, e dopo circa mezz’ora mi trovai tra le braccia della mia migliore, adorata amica, Elizaveta Nikolaevna Z.

Come si può immaginare, la nostra conoscenza, la nostra amicizia si riallacciarono, ci vedemmo molto spesso, sebbene fossi privata del piacere di accoglierla nella mia casa. Lei da più di dodici anni non varcava i confini della sua proprietà, non lasciava neanche per un momento lo zio-eremita. Persino in mia presenza divideva il tempo tra me e lui, perché Vlodinskij era per me, quanto per l’intera società, invisibile, e nel corso delle mie visite, nell’arco di due anni, lo vidi due volte in tutto, e solo di sfuggita, per caso.

Che non si deduca da questo che fosse un misantropo, uno storpio capriccioso, un malato di gotta o quanto meno un naturalista, che aveva trasformato il suo studio in un cimitero di tutte le specie di animali e insetti. No, lui non soffriva di nessuna malattia cronica; i contadini, non solo del suo villaggio, ma persino di tutte le campagne circostanti, benedicevano la sua generosità e la sua abituale prontezza a servire il prossimo; il suo carattere era costantemente calmo, mite, senza la benché minima punta di bizzarria o di capriccio, e non aveva una passione particolare nemmeno verso una delle scienze, sebbene fosse alquanto esperto in molte. Non era neanche vecchio di età — a detta della nipote, aveva appena compiuto quarant’anni, — ma le passioni o il dolore lo avevano invecchiato, e dall’aspetto esteriore gli si potevano dare settant’anni. Il suo viso era rinsecchito, solcato dalle rughe; i lineamenti, estremamente regolari e delicati, sembravano ancor più delicati per via del suo pallore opaco e dei suoi capelli grigio-argentei. Nei suoi occhi senza luce e senza sguardo si rifletteva una tale languidezza, una tale spenta inerzia di tutti i sentimenti, che fin dal primo sguardo si vedeva che non apparteneva al nostro mondo.

Erano passati diciotto anni da quando lui, dopo essersi ritirato dal servizio nel fior fiore della giovinezza, era sprofondato nell’isolamento, aveva rotto tutte le relazioni con le persone, aveva allontanato da sé tutte le conoscenze, tutti i piaceri della società, e da quel momento non aveva cambiato nemmeno una volta il suo modo di vivere da eremita.

Ma, essendo morto per sé, sembrava che vivesse una doppia vita per gli altri. La più sublime e più pura abnegazione era la legge del suo essere; gettarsi nell’acqua e nel fuoco per la salvezza dell’ultimo mendicante, privarsi del necessario per rendere più agiato l’indigente, trovarsi sempre e dovunque, per quanto non chiamato, sulle tracce ancor fresche di una disgrazia: tutto questo costituiva il nutrimento, l’aria della sua vita. Per quante doti dell’intelletto, forze dello spirito e del corpo, tesori terreni il signore non gli avesse concesso, lui dispensava tutto agli altri, senza eccezione, donava tutto agli altri, come se per se stesso non gli fosse necessario nulla.

Aveva solo una sorella, che da molto tempo non c’era più; tutti i suoi bambini erano stati educati e sistemati da lui, e lo veneravano a tal punto che la mia amica, che gli aveva offerto in dono l’intera sua vita, ne era la migliore testimonianza.

Questa ragazza, a diciassette anni, nata con un corpo e un’anima destinati ad essere ornamento della società, aveva rinnegato la società stessa, la felicità della vita familiare, aveva assunto il grado supremo di ascesi monastica soltanto per allontanare le preoccupazioni della vita domestica dallo zio con delle tenere cure, per calmare il suo corpo sfinito con la premura e gli ammonimenti, e, talora, per scacciare dalla sua mente, con la conversazione, i ricordi tormentosi. Del migliore, del più grande conforto — lenire l’anima del sofferente — era stata privata, senza sapere, senza neanche indovinare la causa del dolore eterno che lo rodeva come il verme di una tomba, e che era nascosta in modo così profondo, così irraggiungibile nel suo petto.

Lei non sapeva quale disgrazia avesse incenerito il cuore di lui, avesse inaridito la fonte di tutte le sue forze vitali; cosa lo avesse scacciato dalla cerchia della gente, se il loro rancore oppure i propri delitti, l’odio verso di loro o verso se stesso; non capiva se era conforto o perdono ciò che lui implorava dal cielo, e se con le lacrime, delle quali vedeva unicamente le tracce al mattino, bagnava le piaghe del suo cuore o si sforzava di lavar via le macchie di sangue di un peccato incancellabile… Tutto era e restava per lei un segreto; e ciò nonostante, lei aveva superato tutti gli ostacoli, si era svincolata dagli abbracci dei familiari, aveva disprezzato le lusinghe della società, aveva vinto con la perseveranza la stessa opposizione dello zio, che a lungo aveva allontanato la sua vittima, e si era rinchiusa insieme a lui nel suo rifugio per condividere con lui l’oppressione del peso della sua anima.

Nei dintorni esprimevano strani pareri in merito a Vlodinskij, gli si attribuivano molte avventure romantiche, si parlava di un qualche avvenimento terribile, di un delitto. Alcuni raccontavano che aveva commesso l’errore di innamorarsi di qualche principessa, nel trambusto di popoli e poteri; le fanciulle sentimentali di quella terra suonavano ancora un valzer malinconico, che, a detta loro, lui aveva composto un tempo in un attacco di follia d’amore; altri vedevano in lui una copia dell’esule di Bornholm [1], e si preoccupavano soltanto del fatto che la sorella fosse di gran lunga più vecchia di lui. Se avesse rinnegato la società un po’ più tardi, quando nella sfera della poesia sarebbe apparsa la nuova, brillante meteora che avrebbe stupito il mondo con la selvaggia armonia dei suoi canti, avrebbero senz’altro innalzato Vlodinskij ad un Childe Harold, ad una Lara, ma purtroppo a quel tempo né Byron, né lo spleen erano ancora noti ai proprietari terrieri della steppa, e in seguito si abituarono tutti all’esistenza del vicino-eremita e, com’è d’uso, si dimenticarono di lui.



Una volta, sapendo che in quel momento stava passeggiando in giardino, osai entrare nel suo studio. Le pareti spoglie, i tavoli e le sedie messi in disordine e un’enorme biblioteca: ecco tutto quello che si presentò al mio sguardo. I libri erano sparsi dappertutto in una strana accozzaglia: filosofi e retori, classici e romantici, poeti e prosatori erano sparpagliati sul pavimento, sui tavoli, sul lungo divano turco. Era evidente che ci si dedicava spesso a loro, ma senza uno scopo, non con piacere, ma per accorciare il tempo interminabile, opprimente; che si prendeva il primo che capitava sotto mano e che, non di rado, essi venivano gettati da parte, senza averne terminato le pagine, come un medicinale troppo blando per lenire tante ferite gravi. Nelle altre stanze era visibile la stessa noncuranza del padrone di casa verso tutte le comodità della vita; in casa, così come in giardino, erano ancora evidenti le tracce del lusso passato, ma era tutto trascurato, vuoto, desolato. In breve, in quella dimora ogni angolo testimoniava la presenza di un uomo che viveva senza scopo, senza desideri, un poveraccio che andava incontro ad una serie di giorni monotoni e li trascorreva come un galeotto, condannato a trascinare con una fune botti molto pesanti, e ad avviarsi, alla sera, non verso il riposo, ma sulla via di ritorno verso lo stesso posto dal quale, il giorno seguente, doveva ricominciare la stessa fatica.

Quale curiosità non sarebbe stata rimpiazzata da compassione alla vista di tanta inconsolabile, misera afflizione? E quale compassione non si sarebbe tramutata in venerazione in presenza di due creature che si tenevano fraternamente per mano non verso il banchetto della vita, ma verso il sonno sepolcrale; che procedevano insieme, con passi uguali, ma diversi nell’animo, estranei nei pensieri, nelle lacrime, sempre con un sorriso pronto, con una parola di approvazione per l’altro, con un’unica, incontrastata afflizione per se stessi?

Erano monotoni gli incontri con la mia amica, silenziose e quiete le nostre conversazioni, ma non vi avrei rinunciato per nessun piacere delle gremite società. Dopo due anni di permanenza nel distretto di …, le faccende familiari mi richiamarono all’altro capo della Russia e, quando, dopo circa cinque mesi, tornai a casa, mi accolsero con la notizia della morte di Vlodinskij. 

Allora, più spesso di prima, cominciai a far visita a sua nipote, rimasta orfana. Inconsolabile per la sua perdita, benediceva la morte che aveva recato la pace al sofferente dopo così lunghi, incessanti tormenti. Il suo modo di vivere non cambiò in nulla: si era così disabituata alla gente che non poteva avvicinarsi di nuovo ad essa. Dodici anni di abitudine la costrinsero ad amare l’isolamento e la vita solitaria. Per alcuni anni ancora compì sulla terra il sublime compito iniziato da suo zio, fare del bene a tutti. Sembrava che stesse portando a termine l’esistenza incompiuta di lui, che percorresse lo stesso percorso, verso lo stesso obbiettivo che lui aveva raggiunto solo un po’ prima; e, come lui, calò nella tomba senza portare con sé nemmeno il minimo rimpianto per il suo congedo dal mondo, ma con una differenza: lui desiderava lasciare la vita, lui chiamava la morte, mentre in lei né la vita né la morte suscitavano alcun desiderio, alcun timore: entrambe le si presentavano come ugualmente sconosciute. Lei c’era, ma non viveva nel mondo. Il suo essere era solo il completamento di un altro essere, un dono spontaneo a colui al quale il destino e le persone avevano tolto tutto. 

Alla morte di Vlodinskij fu trovato un pacchetto sotto il suo capezzale, con un’iscrizione a nome della nipote. Si trattava della sua confessione precedente alla morte: la descrizione della sua giovinezza, delle sue passioni, dei pochi minuti che avevano assorbito tutto il resto della sua vita, e la copia di una lettera che era stata sempre custodita in seno al sofferente e che era stata seppellita con lui nella tomba, secondo i suoi desideri.

Sia l’una che l’altra spettarono a me, e rimasero a lungo nascoste nella mia borsa, celate da tutti gli sguardi. Ma adesso che sulla terra non è rimasto nessuno vicino a coloro che presero parte a quel triste dramma, che tutti i suoi testimoni sono scomparsi dal cerchio dei viventi o, sparsi per il mondo, hanno dimenticato un evento usuale in società, adesso mi risolvo a presentare ai miei lettori il manoscritto di Vlodinskij come lo schizzo della doppia esistenza di una donna, il ritratto di un’anima luminosa e pura che brillava solennemente nel suo mondo interiore; e il suo menzognero riflesso nelle opinioni della gente, in quello specchio traditore che, come il bacio di Giuda, davanti ci adula e alle spalle ordisce soprusi, ignominia, e spesso persino la morte.

Ecco la copia, da me trascritta parola per parola, del biglietto di Vlodinskij e della lettera segreta. 


“È giunto il momento della nostra separazione. Lo sento, il felice istante della mia liberazione dai vincoli terreni è vicino. La fine della vita, delle sofferenze! L’anima anela alla terra promessa della beata vita eterna. 

Ma, abbandonando la terra, non voglio restare tuo debitore, mia unica amica, mio conforto; non voglio andar via dal mondo senza condividere con te tutto quello che ha allietato, straziato e tormentato la mia anima. Da tempo volevo rivelarti la causa del mio rifiuto del mondo; più di una volta, in tua presenza, il tragico segreto ha palpitato sulla mia bocca; per me erano un rimprovero la tua disinteressata abnegazione, la tua commovente dedizione, la tua inconsapevolezza; per chi avevi sacrificato il tempo irrevocabile degli svaghi, dell’amore, dei piaceri; per chi e con chi ti eri sepolta viva nella tomba… Perdonami, perdonami… Non potevo raccontarti a parole la triste storia dei miei errori, del mio peccato, non osavo risvegliare in una volta sola tutti i ricordi della mia giovinezza. I singhiozzi avrebbero soffocato la voce nel mio petto, sangue, e non lacrime, sarebbe sgorgato dagli occhi… E ancora, perdonami! Temevo che un giorno, in futuro, seppure involontariamente, balenasse nei tuoi occhi la compassione o la pietà: per me sono insopportabili, li ho respinti da me per tutta la vita…

Con nessuno avevo condiviso la mia beatitudine; non avevo cercato la mano di nessuno come sostegno nei momenti di disgrazia e di solitudine; non avevo supplicato l’aiuto di nessuno per compiere il perfido, terribile delitto. Adesso avrei dovuto addossare su spalle altrui il peso del mio castigo? Struggere il mio dolore con lacrime altrui? Addormentare il pungolo della coscienza in un petto altrui, con sofistiche consolazioni altrui?..

No, no! Il destino, rendendomi orfano già nella prima infanzia, mi aveva distintamente indicato il mio sentiero. Solo nei giochi infantili, solo nella vita, nell’amore, negli errori, nella stessa tortura del pentimento, calerò solo nella tomba, con la fiera convinzione che tutto ciò con cui il cielo mi ha ricompensato, tutto ciò con cui le persone mi hanno ferito, tutto ciò con cui qualche volta lo stesso inferno mi ha annientato, ho accolto tutto nella mia anima, ho conservato tutto in essa indistintamente e irrevocabilmente.

C’è qualcosa di confortante nella solitudine permanente, volontaria. Finché pur un solo nostro pensiero comunica con il pensiero di un’altra persona i nostri legami con la gente non sono infranti: costui custodisce la chiave dell’espressione del nostro viso, può prevedere i moti del nostro cuore e ci sono degli attimi in cui è come se voi dipendeste da lui. Può essere definito padrone assoluto di sé solo colui che riesce a nascondersi in se stesso, sul cui viso il sorriso e la ruga restano geroglifici per tutti, le cui lacrime, pur quando sgorgano più impetuose, non straripano dalle rive dell’anima, ma, al contrario, tornano a riversarsi in essa, sempre così amare, cocenti, impenetrabilmente profonde.

E non è forse più semplice avvertire una lacrima caduta sul cuore che vederla gelare sul petto freddo di un indifferente?.. Mi abituai al mio silenzio prima che tu mi tendessi la mano per un’eterna unione nel dolore e nello straniamento dalla società; i miei sentimenti si rinvigorirono nel loro involucro, i ricordi si radicarono nell’anima: adesso devo strapparli insieme al mio sangue per condividerli con te!.. Per giunta il dolore, come una lampada, si consuma nella luce che si spande intorno: io custodivo il mio in un’urna funebre; esso bruciava senza scintille, senza aria, era eterno, perché ciò che lo alimentava era inestinguibile. 

Sì! Conservavo e custodivo il mio dolore, mi nutrivo, vivevo di esso come un tempo il re viandante [2], nutrendosi di veleni… Perdonami quindi per non averti invitato al mio banchetto solitario, per non averti offerto la coppa della mia bevanda. Ora che l’ho bevuta tutta fino all’ultima goccia, prendi il recipiente vuoto, misura dei miei strazi; accogli le ultime forze della mia memoria, dei miei sentimenti e della mia vita… Da questi fogli verrai a sapere tutto, e gioirai per il mio congedo dal mondo…

Ti sono noti i dettagli della mia infanzia, della mia educazione, del mio essere diventato prematuramente orfano; sai che tua madre, più grande di me di dieci anni, era sposata da tanto tempo e viveva in un remoto governatorato, mentre io, appena tolte le dande, mi ero gettato a capofitto nel campo, a quel tempo fragoroso e pericoloso, delle operazioni militari.

I rivolgimenti che avevano scosso la decrepita Europa, la caduta dei regni, l’incredibile ascesa di Napoleone, le sue gigantesche prodezze, l’inappagabile sete di gloria, il suo eroismo, il genio, la superba presunzione e i continui successi in tutte le imprese avevano portato al più alto grado di tensione lo spirito dei giovani. Sembrava che fossero risorti i periodi bellicosi della Grecia e di Roma; tutto quello che si poteva dominare con le armi si schierava sotto le bandiere sventolanti; nessuna ascesa sembrava impossibile, nessun livello di grandezza inaccessibile.

Preso dalla tendenza generale, anch’io mi abbandonai all’ambizione, ai sogni di gloria, e la mia anima si estraniò da tutto quello che non veniva celebrato al suono delle trombe, che non veniva proclamato dalle grida dei popoli.



Passarono così i primi sei anni del mio ingresso al servizio fino al 1815, e soltanto da quel momento si può considerare il mio ingresso in società, poiché fino ad allora la vita da bivacco non mi aveva permesso di conoscere la vita di società; l’avevo guardata da lontano, a rade riprese, mentre mi spostavo dai palazzi ospitali di un proprietario terriero russo ai circoli ostili dei signori polacchi, dal salottino di una parigina alle linde casette padronali della Germania.

In questa vita energica, piena di preoccupazioni e di bravate, tra una gozzoviglia in una tenda ieri e i preparativi alla battaglia di domani, non c’era tempo per filosofare, per anatomizzare la gente e la società, per paragonare le loro tradizioni alle teorie dei grandi esempi, che sono così tanti nel mondo intellettuale, come pochi sono, in sostanza, i loro seguaci. Nella mia testa e nel cuore non c’era nulla di definito, di originale; dalle mie entusiaste idee giovanili intrecciate ai freddi esempi della vita vera, dagli aneddoti e dalle opinioni dei compagni, dalla lettura del primo libro capitato tra le mani venne a crearsi nella mia mente il caos più vario. Procedevo con gli occhi bendati; agivo senza neanche rendermi conto di una sola delle mie azioni; pensavo tra me e me anche ad alta voce, senza saper distinguere perché fosse così e non altrimenti. Prendevo l’arguzia per il massimo grado dell’intelletto; la propensione a battersi con un amico, ad ucciderlo, addirittura, per una stupida incomprensione, per una prova di coraggio cavalleresco e di magnanimità. Quasi non conoscevo le donne, ma grazie alla millanteria dei compagni e ad alcuni romanzi francesi, non avevo di loro un’idea molto positiva. L’uomo era, nella mia opinione, l’ornamento di tutta la catena visibile della creazione, consideravo la donna come l’anello ultimo, il passaggio dall’uomo alle creature prive della parola: mi sembrava un fiore che cresceva per un fugace svago dell’uomo nel suo tempo libero, bello, ma non meritevole di grande attenzione. Per quanto riguardava l’amore, non lo mettevo al di sopra di un aneddoto raccontato davanti ad una coppa di champagne, di un colpo di pistola nel bersaglio e di una lettura di un epigramma insensato… Tali erano le mie idee ed il mio carattere al ventiduesimo anno di vita; in questo stato mi colse la mia rinascita.

Durante lo spostamento generale delle truppe, in parte dirette ad occupare gli alloggi in Francia, in parte di ritorno in Russia, il nostro reggimento si fermò in Germania, in una piccola cittadina sul Reno. Lì mi ammalai di una forte febbre nervosa e, quando il reggimento ricevette l’ordine di ripartire, non riuscii a staccare la testa dal cuscino. Dopo aver raccolto gli attestati di tutta la facoltà di medicina, il mio comandante si decise a lasciarmi in quel posto fino alla mia guarigione, e mi affidò alle cure di un suo amico, il barone Horch, un uomo di età veneranda, senza una famiglia propria, sinceramente devoto al governo russo. Alla partenza del reggimento il barone mi portò subito, in stato d’incoscienza, nella sua casa fuori città e lì, non prima che fu trascorso un mese, cominciai lentamente a tornare alla vita. La primavera era appena arrivata. La proprietà del barone Horch, situata in una gola tra le montagne, era delimitata da un bosco e da un fitto parco da ogni lato, il vento ululava giorno e notte tra gli alberi spogli, la nebbia velava perennemente i dintorni, tutto era malinconico e solitario. La stessa casa del barone, che apparteneva alle costruzioni dei tempi feudali, era diroccata. Gran parte di essa era disabitata ed era tenuta in piedi soltanto dall’orgoglio del proprietario, che venerava le pareti fatiscenti del castello in quanto testimoni della passata grandezza dei suoi antenati. Persino la stanza in cui il malvagio medico mi aveva condannato ad una prolungata prigionia avrebbe potuto servire da esempio delle stanze dei tempi cavallereschi: alta, col soffitto a volta, con cornicioni sui quali le armi e le foglie di quercia s’intrecciavano con gli stemmi dei baroni Horch, con una finestra in stile gotico che dava sul giardino; con mobili massicci e grossolani e con una serie di ritratti a figura intera che più di una volta, nei miei attacchi di irritabilità dovuti alla malattia, mi avevano fatto arrabbiare per il loro portamento borioso, tronfio, specialmente le donne, per l’affettazione con la quale se ne stavano, dritte, i vitini di vespa, con bouquet di enormi rose tra le mani. Tutti quegli oggetti s’impressero profondamente nella mia mente, confondendosi con i ricordi della cantilena della ninnananna, dei giochi con la balia; sembrava che, mentre ritornavo alla vita, cominciassi nuovamente dall’infanzia; ero gracile, capriccioso come un neonato: non mi sottomettevo in nessun modo alla voce della ragione.

Quando mi dissero per la prima volta tutto quello che era accaduto durante la mia malattia, per poco non caddi di nuovo in delirio. Il pensiero che fossi rimasto solo, come una cicogna ferita in un paese straniero, quando tutti gli amici e i compagni erano tornati a casa, mi portò alla disperazione. Supplicavo tutti di lasciarmi libero, volevo andare a cavallo giorno e notte per raggiungere il reggimento, quando ancora non riuscivo a sollevarmi dal letto senza l’aiuto di un altro. Il barone e il suo medico di famiglia mi facevano regolarmente visita due volte al giorno, trascorrevano mezz’ora nella mia stanza e, quando andavano via, mi lasciavano solo con un servitore anziano, che mi accudiva con molta premura. Oltre a queste tre persone non vedevo anima viva nell’intero castello.

C’è bisogno di dire che stavo diventando indicibilmente triste e malinconico? I giorni si protraevano in una sfilza monotona, infiniti come i minuti di un’attesa passionale. Solo, abbandonato da tutti, più di una volta mi agitavo nel letto in cui ero immobilizzato mentre maledicevo la mia infermità, e nella rabbia, nell’impazienza, desideravo cambiamenti al punto da cogliere il fruscio più lieve in ciò che mi circondava, da tendere l’orecchio ad ogni scricchiolio della porta, da inventarmi mille occupazioni per accorciare il tempo, almeno per un po’: ora riportavo alla mente versi imparati a memoria tempo fa, ora contavo le spade nei cornicioni e i boccoli delle venerabili nonne e zie del barone, ma, più di tutto, mi sedevo davanti alla finestra sorretto dai cuscini, guardavo il tremolio dei rami che diventavano verdi e, se capitava che uno dei primi uccellini, volteggiando e nuotando nell’aria, sfrecciasse con un grido nella volta celeste, lo accompagnavo con occhi tristi e invidiavo la libertà dell’abitante dell’aria.

In una posizione simile mi sorprese una volta il tramonto. Stava diventando buio; la campana con rintocchi prolungati preannunciò le sette; il mio anziano servitore Christian mi lasciò, come al solito, solo, ritenendo che a quell’ora dovessi necessariamente dormire. In quel momento, mentre guardavo distrattamente il sentiero in giardino che, iniziando sotto la mia finestra, si perdeva in lontananza tra gli alberi fitti, notai una figura umana. Una visione tale era talmente insolita nel castello che le rivolsi tutta la mia attenzione. La figura si avvicinava piuttosto rapidamente; riuscivo già a distinguere il colore scuro del suo vestito; ancora alcuni istanti e vidi distintamente una donna avvolta in una mantella, con un velo gettato con noncuranza sul capo.

[...CONTINUA...]


NOTE

[1] Personaggio de L’isola di Bornholm, racconto preromantico di Nikolaj Karamzin (1766-1826), apparso per la prima volta nel 1794 sull’almanacco Aglaja. 

[2] Il re viandante (царь скиталец) è un personaggio leggendario folclorico.

ILLUSTRATIONS

1. "Portrait of a Young Officer" (1810) by A. G. Varnek (courtesy of the site Cult Obzor)

2. Title page of Karamzin's 1794 almanac Aglaja (courtesy of Nacional'naja Elektronnaja Biblioteka).

3. Engraved portrait of Napoleon from 1813 (courtesy of Tercija Antique's online catalogue).


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