Translation 1.4 Elena Gan, Il giudizio del bel mondo

[CONTINUATO DA PARTE N. 3]


Elena Gan, IL GIUDIZIO DEL BEL MONDO (1840)
(traduzione a cura di Carmen Di Mario)


[PARTE N. 4]


Il generale N***, il marito di Zenaida, venne per alcuni giorni al castello. Entrò inaspettato in salotto, abbracciò la moglie con allegria e indifferenza così come strinse la mano al nonno di lei, s’inchinò a me e al dottore: nonostante fosse il più freddo bacio coniugale, esso si tramutò in un colpo di pugnale nel mio petto. Trasalii, i miei sentimenti si destarono; in un istante l’amore verso di lei e l’odio verso suo marito divamparono nel mio cuore spargendosi come lava incandescente in tutte le mie vene. Ero immobile, come paralizzato al mio posto, non osavo guardarmi intorno, e, probabilmente, sul mio volto appariva la sofferenza interiore, poiché il dottore, avvicinandosi a me, disse:

— Che cosa avete?

Trascorsi cupo tutta la sera seduto in un angolo tra due colonne, senza la benché minima partecipazione ai discorsi, senza quasi sentire di cosa si parlasse. Soltanto, ogni qualvolta il generale, senza interrompere i dibattiti politici con il barone, si avvicinava a sua moglie e lisciava i suoi boccoli, le metteva una mano sulla spalla, la accarezzava con una di quelle carezze che si donano anche ad uno spitz, ad un micio e ad un bel bimbo, ogni volta, dicevo, il mio petto si contraeva convulsamente e sentivo che un sudore freddo bagnava la mia fronte. Dopo cena, quando tutti iniziarono ad andar via, mi parve che il generale seguisse la moglie nella sua stanza… in quel momento, un momento terribile, per poco non giunsi ad umiliarmi assumendo il ruolo di spia per verificare la mia ipotesi; smaniavo, deliravo.

Il mio genio buono, tuttavia, m’impedì quell’azione folle. E, fuori di me, mi precipitai nella mia stanza. Lì per la prima volta mi si figurarono distintamente lei e la mia condizione, i nostri vicendevoli obblighi, il mio amore vano, l’impossibilità di un solo istante di assoluta beatitudine e, nel contempo, la felicità di colui che la possedeva secondo tutti i diritti e le leggi, di colui che ardiva frequentare il bel mondo tenendola per mano, fiero dell’amore di lei e della propria felicità, di colui che poteva ripetere in ogni istante della sua vita: «lei è mia!»

In passato, quando Zenaida mi appariva cinta da un’aureola divina, quando la ritenevo superiore a tutto ciò che era mondano, al punto che neanche il pensiero di possederla un solo istante ardiva sorgere nella mia mente, ero soddisfatto della mia adorazione segreta, ero felice, quando in cuor mio baciavo le sue orme… Adesso osavo vedere in lei una donna pari a me, creata dalla mia stessa polvere, creata, forse, per me e gettata tra le braccia di un altro soltanto per un capriccio della malasorte, che non fa alcuna distinzione. Al mio passato amore rispettoso verso di lei si erano mescolati pensieri impetuosi sul piacere terreno, la vedevo tra gli abbracci del coniuge avanti negli anni che aveva sprecato la sua vita da un pezzo, vedevo le carezze forzate di lei per le quali avrei dato mille vite, avrei patito i tormenti più crudeli; vedevo, sentivo, e, disperato per la mia inettitudine, nei furiosi impeti di gelosia e di indignazione, dilaniavo il mio cuore, mi stringevo al capezzale con lacrime ardenti per soffocare almeno in esso i forti singhiozzi e, più di una volta, baciando nel delirio il cuscino umido di lacrime, mormoravo: — Zenaida, Zenaida!..

Verso il mattino un sonno agitato chiuse i miei occhi; mi addormentai senza svestirmi sulla poltrona e mi svegliai prima di tutti. Il sole spuntava appena; attraverso la finestra aperta spirava su di me un venticello fresco, il senno aveva domato i moti notturni dell’immaginazione, aveva rasserenato un po’ la mia anima turbata. Scrissi al barone che prima di tornare in Russia dovevo necessariamente fare un salto nella cittadina vicina, giustificavo la mia partenza improvvisa con delle notizie che sembrava avessi ricevuto il giorno prima, promettevo di ritornare presto e, dopo aver consegnato la lettera al servitore, montai a cavallo e mi misi in galoppo verso S***.

Non mi metterò a descrivere in che modo trascorsi quei tre giorni di insopportabile separazione da Zenaida: vivere nel castello come testimone sconsolato della felicità di un altro sarebbe stato per me cento volte più straziante. Per tutto il tempo del mio esilio volontario restai chiuso nella trattoria, e dieci volte al giorno m’informavo se il generale russo, di ritorno, fosse passato di lì. Il quarto giorno mi rallegrarono con una risposta affermativa e tornai al castello, ma non tornai com’ero prima. Il mio amore radioso si era offuscato nel vortice della passione, come si offusca il raggio di una stella al bagliore di un incendio appena divampato. La felicità, della quale poco prima mi accontentavo con un tale piacere, adesso non riusciva più ad accontentarmi, i miei sentimenti varcarono i limiti del rispetto, intenzioni irriverenti, desideri irrealizzabili si erano annidati nell’anima; ora temevo di offendere Zenaida con lo sguardo, ora mi ostinavo a pretendere che si rendesse conto di aver distrutto la mia passata condizione serena; provavo dispiacere per lei, provavo dispiacere per me stesso, esaminavo ogni mia mossa, leggevo il sospetto su tutti i volti; in breve, i miei giorni e le notti trascorrevano nella più spietata lotta: tutto ciò che era stato per me fonte di beatitudine si era trasformato in veleno, in tortura.

A volte Zenaida, informandosi premurosamente sulla mia salute, chiedeva se avessi ricevuto notizie spiacevoli dalla Russia. Il suo interesse e quella quieta amicizia mi commuovevano fino alle lacrime, ma non volevo illuderla, rispondevo negativamente, confuso. Più di una volta mi aveva lanciato un profondo sguardo inquisitore che faceva avvampare e rabbrividire il mio corpo; allora io in fretta conducevo la conversazione su argomenti banali, oppure con qualche pretesto lasciavo la stanza. 

Una volta, innanzi sera, eravamo soli vicino alla finestra spalancata sul giardino: Zenaida era intenta a cucire; io osservavo silenzioso il sentiero dove mi era apparsa per la prima volta ed ero malinconico, sofferente, come se un macigno mi fosse caduto sul petto. Alla fine Zenaida chiese sottovoce a cosa pensassi, e io, colto nei miei sogni, senza riflettere sulle conseguenze di tale imprudenza, le raccontai dettagliatamente in che modo l’avevo vista per la prima volta dalle finestre della mia prigione, quale impressione mi aveva fatto, con quale ansia poi avevo aspettato il tramonto, avevo preceduto il suo arrivo, con quale gioia l’avevo salutata da lontano. Il mio cuore era talmente colmo che dovevo sfogare, sebbene in piccola parte, ciò che divorava la mia esistenza. Rapito dal dolce ricordo, non tralasciai nemmeno un sentimento, nemmeno un dettaglio fino alla sera fatale in cui il barone mi aveva concesso la felicità di conoscerla. Zenaida aveva poggiato il cucito sulle ginocchia e mi aveva ascoltato senza interrompere, profondamente assorta nelle sue riflessioni. Io tacqui, la parola “amo” non era sfuggita nemmeno una volta dalle mie labbra, ma inconsapevolmente, contro tutte le mie intenzioni, le avevo rivelato il segreto tanto a lungo e tanto premurosamente custodito in fondo al mio cuore… Allora, lei, a sua volta, si alzò in preda a una forte agitazione, il suo viso era pallido, ma gli occhi ardevano; dopo alcuni passi lungo la stanza si avvicinò alla porta e si scontrò con il barone. Il vecchio portava nelle mani un plico enorme. — Ricevuto dalla posta proprio adesso — disse sorridendo, e, strappato il sigillo, vuotò sul tavolo un cumulo di riviste, giornali e lettere: ce n’erano alcune indirizzate a nome mio. Mentre le leggevo, dopo essermi fatto da parte, anche il barone era intento ad esaminare le notizie ricevute e all’improvviso, rivolgendosi a me, disse:

— Su, prigioniero caro, è ovvio, bisogna restituirti la libertà; ecco la lettera del tuo comandante; rimprovera sia te che me. Prendi un po’, leggi tu stesso.

Nelle lettere indirizzate a me si richiedeva urgentemente il mio ritorno in Russia, si minacciava persino l’espulsione dal servizio. Lanciai un’occhiata a Zenaida: se ne stava di nuovo presso la finestra con una rivista davanti al volto.

La testa prese a girarmi; uscii di corsa dalla stanza.

Dopo mezz’ora, tornato in salotto, trovai Zenaida sempre nello stesso posto, soltanto la rivista e il cucito erano stati abbandonati; se ne stava con i gomiti appoggiati alla finestra, reggendosi la testa con le mani. Mi stavo avvicinando: sentendo il rumore dei miei passi, lei trasalì, mi lanciò un’occhiata e si voltò di nuovo verso la finestra.

— Dovete andare in Russia? — chiese dopo un breve silenzio con una voce sommessa e, mi parve, timida.



— Sì! — risposi, senza avvertire in me né il desiderio, né la forza di compiere ciò che asserivo con quella risposta. 

— Andate, andate! — disse animatamente. — Tornate in fretta nella nostra cara patria… Lì vi aspettano gli amici, i parenti… Siete ancora così giovane! Avete tutta la vita davanti a voi… Andate e siate felice!..

Non riuscivo a vedere il suo viso che era rivolto verso il giardino e mi era celato dalle onde dei folti boccoli, ma udivo come sgorgava esitante la sua voce dal petto, ne sentivo il fremito, e per la prima volta il pensiero di essere ricambiato si fece largo con un barlume di gioia nella mia anima.

— La felicità è un gioco del fato! — risposi subito. — Il fato mi ha privato della terra dove vivevo e dove ero contento di strisciare come un verme; ma, dopo avermi mostrato il cielo, non mi ha munito di ali, e il cielo resterà per me eternamente irraggiungibile. E dove, e in che cosa dunque dovrei cercare la felicità?..

Zenaida scrollò il capo e due minuti dopo disse piano, come se riflettesse ad alta voce:

— La felicità è solo una parola, un suono privo di senso e di significato. Un uomo che s’infatua con facilità del vano tintinnio di un campanello può inseguirlo, ma per colui che nella propria vita ha la capacità di pensare e di provare sentimenti, credetemi, essa è irrealizzabile.

— No, no! — esclamai con fervore, ancora incantato dalla speranza balenatami poco prima. — Non ingiuriate la provvidenza, non private l’uomo del suo migliore, più dolce conforto: la fede nella felicità! Essa può avverarsi se non ci spaventiamo dei fantocci con cui il bel mondo, che invidia ogni briciolo di gioia che gli è nascosto, ci circonda. Essa può avverarsi se, senza tentare la sorte con le brighe per il futuro, ci accontentiamo della fugace, ma del tutto incomparabile beatitudine del presente… Oh! Quale felicità si avvererebbe per noi… per me… ma solamente qui, e ora, oppure mai più! Il passo dell’inferno di Dante minaccia il mio futuro: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate.[1]

Mi fermai, temendo di aver detto troppo, eppure, quanto ancora mi restava da dire! La mia vita primigenia, vegetativa, la felicità di incontrarla, i miei sogni, la lotta, le sofferenze e il primo raggio di speranza che mi aveva illuminato nel buio della disperazione: tutto quanto si rianimò nel ricordo, si riversò nel cuore dove divenne preda di smanie, chiedeva di essere liberato… Aspettavo un solo sguardo, un solo cenno di mano per confidarle tutto, tutto e poi, in singhiozzi, implorare il perdono ai suoi piedi, meritarlo dopo anni di separazione… Ma lei taceva; né un sospiro, né un benché minimo movimento tradiva i suoi sentimenti. 

Tremavo davanti a lei, straziato da mille sensazioni dolorose; la guardavo come un criminale che nel timore dell’ignoto aspetta dalla bocca del giudice una grazia oppure un’ignominiosa pena; ma lei taceva e sedeva immobile, con il viso rivolto verso la finestra… Un istante ancora e non avrei più sopportato il mio strazio, il mio cuore sarebbe scoppiato in singhiozzi, in suppliche… Ma Zenaida, chinandosi sui fiori in un bicchiere davanti a lei, cominciò ad aspirare il loro profumo come se si fosse dimenticata della mia presenza. Rimasi di stucco.

La sua collera, i suoi rimproveri mi avrebbero atterrito; restai immobile nella speranza di essere ricambiato… Ma quella calma, quella soffocante indifferenza non trovava posto nelle mie aspettative! Stupefatto, quasi offeso, ero sul punto di esplodere in insulti, in un’amara ironia. Zenaida chinò la testa ancora più in basso e una grossa lacrima, dopo essere caduta su un ramoscello di mughetto, restò penzolante dalla tazzina bianca della piantina. In un istante la mia indignazione sparì, quella lacrima segreta, involontaria, istillò una goccia di rugiada vivificante nel mio cuore, mi aprì l’anima di Zenaida e la compresi senza alcuna spiegazione, con simpatia, come un bimbo comprende le lacrime della sua mamma prima che le sue deboli cognizioni si familiarizzino con le parole di tristezza e di gioia.

— Perdonatemi! Perdonatemi!.. — esclamai, baciandole ardentemente la mano. — Vi ho offeso, perdonatemi!..

Lei si alzò in fretta dalla sedia, concentrò su di me gli occhi pieni di lacrime e come se volesse vuotare tutta la sua anima in una parola, disse subito con una voce sommessa ma forte:

— No, Vlodinskij, no, non mi avete offeso. Ma per carità, per la vostra e la mia serenità, partite al più presto! Non dobbiamo vederci più… Dimenticate questo momento, dimenticate tutto ciò che vi ha allettato, come le fantasie di un sogno irrealizzabile. Non disperate nell’avvenire: alla vostra età al posto di una speranza infranta ne rinasceranno altre dieci più belle… Nella vostra anima c’è un’aspirazione nobile verso tutto ciò che è sublime, c’è molta energia, molte capacità: potete giovare all’umanità; non lasciate inerti i tanti meravigliosi doni celesti!.. E vi chiedo ancora una cosa: non cercate un secondo incontro con me in Russia, non pronunciate mai il mio nome; se potete, cancellatemi dalla vostra mente… Promettetemelo! Datemi la vostra parola che esaudirete la mia prima e ultima preghiera!..

Le stavo di fronte annientato e non osavo sfiorare la mano che mi aveva teso.

— Non volete?.. Me lo negate?.. — chiese con una voce nella quale si sentivano le lacrime.

— Non potete pretendere da me ciò che va oltre la forza di un uomo, — risposi, — vi do la mia parola che non cercherò di rivedervi, e questo è tutto quello che posso promettere ed esaudire…

— Vi ringrazio, vi ringrazio!.. Il tempo completerà il resto… Addio!

Mi strinse la mano e scomparve nella stanza laterale.

Non la incontrai più.

Tornai in Russia; la mia vita prese a scorrere secondo l’ordine consueto: il maneggio, le esercitazioni, le rassegne, come prima mi circondai di compagni; i cinque mesi trascorsi nel castello del barone Horch mi sembravano un magico frammento della mia esistenza, un sogno incantato del quale erano rimasti soltanto la nostalgia del ricordo e la repulsione per il mondo, nel quale non trovavo nulla che somigliasse a lei.

La mia condizione era un peso per me stesso: ora evitavo la gente, ora mi gettavo spontaneamente nelle compagnie più scapestrate, prendevo parte a tutte le baldorie; ma né l’isolamento, né il fragore dei banchetti mi concedeva neppure un attimo di oblio. La simpatia dei buoni amici irritava il mio dolore: i loro scherzi m’infuriavano. Qualche volta, allettato dalla felicità a me estranea di alcuni miei compagni, mi rimproveravo del passato, biasimavo il ruolo di corteggiatore sofferente, mentre, — chissà? — con una maggiore audacia e insistenza, forse, avrei assaporato anch’io quella stessa felicità?.. Per quale ragione avevo rimandato, cosa mi aspettavo dal tempo quando la vita mi aveva offerto nel presente un calice ricolmo di gioia?..


In simili riflessioni maledicevo me, Zenaida, tutto il bel mondo; ma un minuto dopo provavo vergogna dei miei impeti, soffocavo dentro di me il brusio della passione folle e in cuor mio chiedevo perdono a colei che non doveva sentirmi mai più. Qualche volta avevo paura, ma ancor più spesso desideravo perdere il senno. Se non mi avesse trattenuto la religione, seminata nella mia anima dall’infanzia e maturata tempo dopo nelle conversazioni con Zenaida, senza esitare mi sarei privato di una vita che odiavo.

Passò un anno; giunse il secondo inverno; il tempo mi aveva restituito un potere apparente su me stesso, ma il ricordo di Zenaida, le passioni che avevano fatto esplodere la mia esistenza vivevano tutte così tenacemente in me come nel primo istante in cui mi ero separato da lei. I compagni, dopo aver esaurito tutti gli sforzi nell’indovinare la causa del mio cambiamento, della mia malattia, come dicevano loro, mi lasciarono in pace, dichiarandomi incurabile. Svolgevo con precisione tutti i doveri del servizio e trascorrevo il resto del tempo da solo, chiuso nel mio appartamento, circondato dai libri, dalle occupazioni. Per me era piacevole pensare che un giorno almeno una notizia che mi riguardasse avrebbe sfiorato l’orecchio di Zenaida e lei avrebbe riconosciuto che il nostro incontro non era stato vano, quali erano i frutti derivati dai semi che lei aveva piantato.

In quel periodo eravamo nella più remota Lituania e io, in parte per incontrare mia sorella, in parte per svago personale, ottenni una licenza annuale e, strada facendo, passai dai parenti di mia madre, che formavano un’intera colonia intorno alla piccola città del governatorato di ***. Zie, zii e cugine mi accolsero a braccia aperte e siccome si avvicinava il periodo delle feste natalizie, mi strapparono la promessa di restare da loro fino al nuovo anno. Mi portarono di villaggio in villaggio, da alcuni parenti ad altri; per me organizzarono feste, pranzi, serate. La zia di mia madre mi amava più di tutti, aveva sette figlie che erano da tempo nel novero delle fidanzate, ma nessuna si era sposata. Tutta la famiglia di queste vestali [2] si era affezionata a me in virtù del doppio vincolo della parentela e di una tenera simpatia; fui costretto ad ascoltare le loro confidenze, le speranze recondite e i pettegolezzi sui vicini proprietari terrieri.Nel periodo di Natale uno dei balli di campagna fu animato dall’arrivo di alcuni giovani ufficiali. Senza prender parte alle danze, come al solito, mi approntai ad una partita a boston con mia zia. Prima di cena la folla delle dame e degli uomini entrò nella sala da gioco, e mia zia chiese ad uno degli ufficiali:

— Allora, signore, la vostra Zenaida Petrovna tornerà presto da noi?

— Quale Zenaida Petrovna? — esclamai, interrompendo la risposta dell’ufficiale.

— La moglie del generale N***, il capo della loro divisione, — rispose tranquillamente la zia, accennando agli ufficiali con lo sguardo.

— E dov’è?.. Dove e per quale ragione la stanno aspettando? — chiesi di nuovo, dimenticando il gioco e la compagnia.

— È andata a far visita al padre, e tornerà ora dal marito. Dopotutto il quartier generale della divisione si è stabilito in città, a circa sette verste da qui. Forse tu la conosci?..

— La vidi… la incontrai all’estero… — mormorai, completamente smarrito, confusi il gioco e fui lieto quando il padrone invitò gli ospiti a cena. 

Durante il viaggio di ritorno, stringendomi in un angoletto dell’enorme carrozza che accoglieva tutta la famiglia di mia zia, fui di nuovo interrotto nelle meditazioni dal caro nome a me noto.

— Che dici, — diceva una delle mie cugine, — Zenaida Petrovna comincerà a farsi vedere più spesso nelle compagnie quest’inverno?

— D’altronde non passa un anno che non se ne inventa una nuova, — notò l’altra.

— Dio non voglia! Forse anche d’inverno, come d’estate si metterà a correre a cavallo per monti e per valli, sola con una folla di uomini…

— Oppure a vagare nel bosco con un libro in mano…

— A dormire ai balli quando tutti danzano, oppure a parlare senza sosta nascosta in un angoletto con qualche prescelto.

— A considerarci tutti dei fantocci, a far mostra di pedanteria, a parlare dei saggi greci e di metafisica.

— Oppure a lanciare battutine alle quali persino gli uomini arrossiscono fino alle orecchie…Così cinguettavano le mie cugine interrompendosi a vicenda, mentre io sedevo, ascoltavo e non credevo alle mie orecchie.

— Di chi parlate in questo modo? — chiesi infine, perplesso.

— L’hai detto tu che conosci la moglie del generale N***, — rispose la zia, — di chi altro ci si può permettere di dire queste cose! Dopotutto stramberie simili, grazie a Dio, non s’incontrano spesso in Russia.

— Zenaida? — esclamai. — Zenaida Petrovna N***? Attribuite a lei questi scherni ed epiteti offensivi? È lei che chiamate filosofa, pedante, stramba?.. E voi volete convincermi che conoscete Zenaida, quell’angelo nel corpo di una donna…

Le finestre della carrozza vibrarono per lo scoppio di risa delle mie cugine.

— Un angelo!.. Zenaida un angelo!.. — gridavano, senza smettere di ridere. — Sei impazzito!.. Sei fuor di senno!.. Sei innamorato!..

— Sì, mi sono innamorato di lei! — risposi con stizza.

— Congratulazioni!

— La adoro!

— Ah, ah, ah!

— La venero.

— Ah, ah, ah!

— Ma non la conoscete, voi non la conoscete! — affermai, cercando di gridare più forte del coro.

— Come no! — intonarono all’unanimità. — Noi non conosciamo Zenaida?.. Dal matrimonio… dall’infanzia… dalla culla!.. Il padre e la madre hanno avuto per tutta la vita la fama di gente strampalata, e la figlia li ha addirittura superati…

E uno scroscio di nuovi scherni, maldicenze, risate nuovamente mi stordì.

Per fortuna la carrozza si fermò all’ingresso, scesi, e come se mi fossi liberato da catene, corsi nella mia stanza. Trascorsi tutta la notte in una violenta agitazione, infuriandomi contro la viltà della gente, contro la malignità delle mie cugine, contro tutto il bel mondo che senza riuscire né a comprendere, né ad apprezzare un tale angelo, sussurrava il suo nome infangandolo e cospargendolo di veleno. Parecchie volte cercai quella stessa notte di lasciare la casa nella quale l’aria stessa, mi sembrava, fosse intrisa di calunnia; ma lei era lì, a sette verste, potevo vederla senza infrangere la promessa che le avevo fatto; dopotutto non avevo cercato io l’incontro che mi era stato proibito: era il destino stesso che ci aveva fatto incontrare… La vedrò!.. Zenaida!.. E rinunciai ad una partenza improvvisa, la consideravo sconveniente, offensiva per i miei parenti, giocavo d’astuzia con la mia coscienza, che, tonante, mi ricordava le ultime parole di Zenaida. Rimasi, e al mattino scesi per la colazione dopo aver fatto incetta di pazienza e di tutto l’orgoglio del disprezzo nei confronti delle calunnie della gente.


[...CONTINUA...]




NOTE

[1] In italiano nel testo.

[2] Nella mitologia romana le Vestali erano sacerdotesse vergini consacrate alla dea Vesta, la divinità del focolare domestico.

ILLUSTRATIONS


[1] Orest Kiprenskij, "Portrait of A. P. Bakunin" (1813) (courtesy of the online Russian Portrait Gallery).


[2] Ivan Chruckij, "Flowers and Fruits" (1839) (courtesy of Galina Suchanova).

[3] A. I. Zauervejd, "In the manège of the Cuirassier Regiment Life Guards" (1830s) (courtesy of Tigryč).

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