Translation 1.6 Elena Gan, Il giudizio del bel mondo
[CONTINUATO DA PARTE N. 5]
Elena
Gan, IL GIUDIZIO DEL BEL MONDO (1840)
(traduzione
a cura di Carmen Di Mario)
[PARTE N. 6]
Non ricordo come finii in una trattoria, poi nella mia stanza. Ero in preda alle smanie, al delirio; i sentimenti in me si erano irrigiditi, il senno si era fatto muto; neanche un solo pensiero affiorava alla mente, non un fremito rivelava la vitalità del cuore. Quasi nel contempo ritornarono a casa le mie cugine e, senza darmi il tempo di svestirmi, mi circondarono, tempestandomi di domande:
— E quindi sei stato dalla moglie del generale?.. Ti hanno ricevuto con affetto?.. Sono stati contenti di vederti?..
— Oggi non ricevono nessuno, — risposi, ripetendo involontariamente le parole del lacchè che ancora risuonavano nella mia testa come i colpi di un martello pesante.
— Come, non ricevono!.. Che sciocchezza, proprio adesso ho visto tre carrozze al suo ingresso.
— Io ho visto il principe andar via da casa sua.
— Ma hai visto proprio lui?.. Lei era sulla slitta insieme a lui… È passata davanti a queste finestre con un cappellino bianco; il principe era sul sedile posteriore…
— Ah, no, non il principe! Veramente quello era Vsevolod, — ribatté la sorella minore.
— Neanche per sogno, neanche per sogno!.. — gridarono tutte e sei all’unanimità. – Non è vero, era il principe, noi l’abbiamo visto molto bene…
— Quale principe? – esclamai, svegliandomi dal mio torpore.
— Il principe Svegorskij, aiutante di campo del marito e amico della moglie.
“Un fortunato che viene ricevuto in camera da letto quando per te la porta è chiusa”, — mi sussurrò all’orecchio qualche demonio, e la sua risata infernale penetrò nel mio cuore come una freccia avvelenata.
— Un principe!.. Un fortunato! — ripetei con un filo di voce. — Zenaida!.. Un principe! Ma chi è? – gridai di nuovo disperato. — Voi l’avete visto, lo conoscete: dite dunque, chi è lui, cos’è per lei… Per l’amor del cielo, almeno una volta nella vita parlate in modo chiaro e sensato. Abbiate pietà, non tormentatemi!..
Evidentemente, meritavo davvero pietà: le sorelle si scambiarono un’occhiata, e la maggiore, mostrandomi la più grande benevolenza, disse, facendomi accomodare con lei sul divano:
— Ascoltami, amico mio. D’inverno la tua Zenaida Petrovna è stata a Pietroburgo, e appena tornata, è stata immediatamente seguita dal principe Svegorskij, nominato, dietro sua personale richiesta, aiutante di campo di suo marito. Lei lo ha accolto come un conoscente di vecchia data, e da quel momento sono inseparabili; nelle compagnie, nelle passeggiate, il principe l’accompagna sempre persino in chiesa. Lo sanno tutti. Quando ultimamente lei è andata per un po’ di tempo da suo padre, il fedele aiutante di campo non si è mostrato in nessuna delle compagnie. Si dice che lei gliel’abbia proibito. Lui è giovane, bello come un adone; si dice sia un giocatore; ma a lei cosa importa! Il generale è così accondiscendente, il principe è così amabile: niente di strano se ciò che si dice… suvvia, forse che si parla poco di lei?.. Non abbatterti, mio buon amico!
— Bene, bene!.. Descrivetemi l’aspetto del principe.
— Alto, longilineo, biondo, con meravigliosi riccioli chiari, un po’ curvo, ma questo si confà alla sua figura.
— È lui!.. Ed è sempre con lei?.. Nella sua camera da letto?.. Ah, Zenaida!..
Dopo essermi fatto strada attraverso la schiera delle mie cugine, mi diressi nella stanza più lontana e mi chiusi a chiave.
In quel momento la slealtà di Zenaida mi appariva indubbia: tutto testimoniava in modo così esplicito, così tonante contro di lei! Il giudizio del bel mondo si era rivelato veritiero; i miei propri occhi mi avevano dato conferma di ciò che il mio cuore aveva negato così a lungo e così ostinatamente… Lui! Nella sua toilette! Da solo con lei! Un uomo con la fama di suo beniamino… lui la supplicava: “Cara amica, mandalo via, non lo ricevere!..” Cara amica?.. Spiriti infernali! E in quel momento, umiliato, io ero dietro la porta!.. Mi hanno respinto con disprezzo! Sono stato sacrificato per il capriccio del nuovo prescelto!.. E io non mi sono scagliato verso di lui, non l’ho strangolato, non l’ho sfigurato…
Così, era quello il motivo per cui mi aveva proibito un secondo incontro! Era quello il motivo per cui mi aveva chiesto di non pronunciare il suo nome in Russia! A quale scopo tutte quelle cautele, quegli avvertimenti? Evidentemente, la sua coscienza inveiva contro la maschera della virtù e lei sperava di far scudo alla propria ipocrisia attraverso la mia inconsapevolezza. E io, cieco, avevo accusato le persone di calunnia, le avevo maledette, le avevo umiliate!.. Se lei fosse stata così pura e santa come si rifletteva nella mia anima, allora nessuna invidia, nessun rancore avrebbe osato sollevare il proprio pungolo velenoso contro di lei: quale spirito delle tenebre non avrebbe chinato il capo davanti al suo splendore?.. No, l’incanto era scomparso!.. I sogni, l’amore, era scomparso tutto!.. Era rimasta la sola, spaventosa realtà, che aveva infranto tutto ciò che aveva adornato la mia misera esistenza e, annidatasi solitaria in un tempio profanato, sibilava come una furia, eccitando le mie passioni.
Soltanto una volta sorse in me un dubbio confortante: un sentimento noto si pronunciava in difesa di Zenaida. Mi si figurò la sua immagine, i suoi occhi, i sentimenti incondizionati ed il riverbero della tristezza: sembrava mi muovesse a compassione. Quello fu l’ultimo richiamo del senno che andava offuscandosi. Forse, avrebbe combattuto contro le calunnie e le perfide insinuazioni della gente, tuttavia infieriva in me un altro sentimento che smorzava tutto, dominava tutto, la gelosia in me avvampava terribilmente, e davanti ad essa si rassegnarono tutte le sensazioni, si ottenebrarono gli ultimi barlumi della ragione.
Il giudizio del bel mondo era veritiero! La donna per la quale avevo innalzato un trono nella mia anima, era semplicemente un’astuta, infida coquette! Ella, dopo avermi rigenerato, dopo aver istillato in me un’altra esistenza, adesso, conversando piacevolmente con altri, mi derideva come un novellino, come uno scolaro che, indossando, come lei desiderava, un abito ridicolo, crede beato che sia il manto della saggezza… Maledizione!
Il mese prima, tribolando nell’angoscia di un amore delirante, mi consideravo il più infelice dei mortali; adesso avrei dato tutto quello che avevo, tutto quello che avrei mai potuto avere in questa vita, soltanto per riconquistare il mio amaro passato, con i suoi strazi, con la sua angoscia, ma anche con la sua cieca fede nell’innocenza di Zenaida… Vivevo spensierato prima di incontrarla, ero felice della mia vita grossolana, prosaica: a che pro aveva dunque voluto lusingarmi con il bagliore illusorio di virtù immaginarie? A che pro aveva spalancato davanti a me un paradiso di percezioni sublimi di cui lei stessa conosceva solo il nome? Adesso il mondo nel quale mi aveva condotto era in frantumi, distrutto dalla sua propria mano, e io? Io, dopo aver estirpato dall’anima tutti i sentimenti, dopo aver maledetto tutti i disegni che non riguardavano che lei, lei sola; io, dopo aver gettato ai suoi piedi tutti i piaceri della mia giovinezza, senza le minime richieste di speranza in ricompense; io, che unicamente in lei ammiravo tutto ciò che vi era di meraviglioso, veneravo tutto ciò che vi era di raffinato, che al suo solo pensiero non agognavo altro che l’avvenire, che ero in pena per lei, l’adoravo, credevo in lei, io che vivevo ed ero felice soltanto della mia ferma speranza, adesso io vedevo il mio idolo abbattuto, calpestato nella polvere dai piedi della gente, e frenetico, in lacrime di sangue, mi convincevo che non era altro che un’effigie, ricavata da un vil metallo, e, ancora peggio, una donna senza coscienza, senza cuore, senza anima!..
Mi strappavo i capelli, m’infuriavo, ora maledicevo il mondo intero, ora, sfinito, singhiozzavo come un bimbo. Ma poco dopo si accese una passione fino ad allora a me sconosciuta; una passione che, espandendosi come un incendio, inaridiva le mie lacrime e smorzava tutte le sensazioni: era la sete di vendetta!
Scrollandomi di dosso tutte le regole e i pareri che avevo seguito negli ultimi due anni della mia vita, riportai alla mente una filosofia da tempo dimenticata contro le donne; mi munii di tutta la millanteria che ancora poco prima guardavo con disprezzo e, a sangue freddo, con calma, cominciai a valutare gli espedienti per soddisfare la mia vendetta.
Il demone della malvagia inventiva non tardò a profilarsi davanti a me: realizzai l’intero piano d’azione e, sperando di incontrare Zenaida al ballo quella sera stessa, raccolsi tutte le forze all’offensiva.
Quando scesi in soggiorno per il tè e le mie cugine, in abiti per metà da ballo e per metà da casa, mi accolsero, come al solito, con ironia, risposi loro allo stesso modo; ero tranquillo, persino allegro, chiacchieravo senza sosta, le invitai in anticipo alla contraddanza, facevo dello spirito sul conto delle loro vicine. La mia ilarità era divampata come divampa il rossore sul viso di un tisico, tanto più vivo quanto più vicino alla fine. Anche l’ultimo istante di lei era altrettanto prossimo!.. Le mie cugine non riuscivano a smettere di meravigliarsi del cambiamento repentino del mio stato d’animo e si rallegravano che io, per usare le loro parole, avessi alla fine riacquistato giudizio. Ma era giudizio quello o pura follia?.. Non sapevo cosa fare, né cosa dire, e avevo in mente una cosa sola, pensavo incessantemente ad una cosa sola: alla vendetta che avevo preparato per Zenaida.
Giunse il momento desiderato: sollecitavo le mie cugine, sollecitavo il cocchiere; tutta l’impazienza dell’innamorato sorse di nuovo dentro di me. Alla fine entrammo in sala. Zenaida ancora non c’era. Mi disposi davanti alla porta, la guardavo in trepidante attesa, adocchiavo tutti coloro che entravano e uscivano; il ballo ebbe inizio, la polka aveva attirato una fila interminabile intorno alla stanza; Zenaida non arrivava… Per più di due ore non mi mossi dal mio posto, non staccai gli occhi dalla porta: ecco sbucare il viso a me noto del generale; un fremito di gioia mi avvolse, avanzai verso la porta, ma al seguito del generale entrarono solo il suo aiutante di campo e alcuni ufficiali.
— Dov’è Zenaida Petrovna? — chiese la signora del ballo.
— Vi porge le sue scuse; una forte emicrania…
Non sentii più nulla. Una luce abbacinò i miei occhi: immaginai che proprio lo spirito maligno l’avesse avvertita della vendetta che avevo tramato. Nei miei calcoli e congetture avevo tralasciato l’evenienza più importante; Zenaida, irremovibile nell’intenzione di non vedermi mai più, probabilmente avrebbe rinunciato alla società per tutto il tempo della mia permanenza in città. Furibondo per il nuovo fallimento, andavo di stanza in stanza, arrovellandomi nuovamente su come avrei potuto incontrare Zenaida da qualche parte nell’affollata società… Nessuna grettezza mi appariva indegna di me purché mi fornisse un espediente per vendicarmi di quella donna. In tale stato d’animo capitai in una stanza riservata in cui una folla di uomini circondava un tavolo da gioco.
Mentre mi avvicinavo alla porta, sentii nel conversar generale le parole:
— Allora, signori, chi è il fortunato?
— E chi altri se non il principe Svegorskij! Il fortunato! Gli sono decisamente favorevoli le dame e le carte…
Quel nome talmente odiato mi fece trasalire; in un istante mi trovai nella stanza da gioco e per primo si presentò al mio sguardo il volto di colui che teneva il banco, nel quale non potei non riconoscere quel giovane ufficiale che avevo visto al mattino sul sedile posteriore della slitta e nella camera da letto di Zenaida. Il mio cuore palpitò di una gioia perversa, nella mente scintillò un’idea fulminea, mi avvicinai al tavolo e mi schierai con i puntatori.
Il principe era un giocatore, come aveva detto mia cugina, pertanto perdere per me non sarebbe stato difficile, e con quella speranza puntai una somma enorme. Ma poiché la fortuna giunge sempre indesiderata, dapprima mi fu addirittura favorevole, nonostante i miei errori volontari e la disattenzione per il gioco. Alla fine il mio perseverare la stremò: incominciai a perdere; in mezz’ora il portafogli e il mio portamonete si vuotarono, proprio quello che volevo ottenere.
Allora, atteggiandomi a giocatore irascibile, stizzito per la perdita considerevole, sbottonai la divisa e strappai dal petto un medaglione in un castone d’oro. Da un lato conteneva un ritratto molto fedele di Zenaida che avevo disegnato quando ero ancora in Germania, dall’altro un mughetto essiccato, bagnato della sua lacrima d’addio; sia l’uno che l’altro fino al giorno prima non mi sarebbero stati strappati se non insieme alla vita; adesso li resi gli strumenti della mia vendetta.
— Ecco un nonnulla, — dissi, rivolgendomi a colui che teneva il banco, — che oggi, forse, avrebbe per voi il valore che aveva per me un anno fa. Questa donna mi ha reso felice, chissà se mi farà felice anche adesso. Del resto, un castone d’oro varrà anche qualcosa; signori, non vogliamo forse stimarne il prezzo? — aggiunsi, consegnando intenzionalmente il medaglione a colui che mi stava più vicino.
Le mie parole avevano attirato l’attenzione generale sul ritratto di Zenaida; i giocatori e gli spettatori avevano formato una calca attorno ad esso, ma nessuno pronunciava il nome della persona nota a tutti; soltanto molti visi si torsero in ghigni velenosi.
— Dunque, egregio signore, convenite di accettare questo nonnulla per cento rubli? — domandai a colui che teneva il banco, e con quelle parole, nuovamente in possesso del ritratto, lo gettai sul tavolo, ricoperto di carte e cosparso di gesso.
Colui che teneva il banco contrasse gli occhi. In un solo istante il suo viso si fece di porpora, afferrò l’immagine di Zenaida, balzò su e, scaraventandomi una banconota da cento rubli, gridò:
— Vile bottegaio! Ecco i tuoi cento rubli, il ritratto mi appartiene!..
Nella stanza tutti presero ad affannarsi; i più premurosi avevano formato una calca intorno a noi, accennando ad un perdono, ad una riconciliazione, ma io, tirando il principe in disparte, gli sussurrai all’orecchio alcune parole, alle quali lui, invece di rispondere, acconsentì col capo e ci separammo immediatamente.
Tornato alla trattoria esaminai le mie pistole, scrissi una lettera a mia sorella, un’altra a Zenaida, in cui esprimevo non solo tutto quello che ribolliva nella mia anima, ma anche tutto il giudizio del bel mondo, tutte le sue accuse; poi, impresso il sigillo, consegnai entrambe le lettere al mio servitore, con l’ordine di recapitarle agli indirizzi indicati in caso di mia morte o di una grave ferita.
Sembrava che la mia furia, esplosa nella scenata del ballo e nella lettera a Zenaida, si fosse placata. Avevo raggiunto il mio scopo: il suo nome era stato disonorato, era stato scagliato nel logorio della folla, e lui, il suo beniamino, lui era la vittima condannata al mio piombo!.. L’indomani sarebbero stati saldati i miei conti con lei e, forse, anche con il mondo… E allora? La vita per me non era mai stata un tesoro, ma adesso avrebbe potuto cessare di esistere oltre i limiti della mia vendetta!.. Come vivere? Per chi? Per che cosa?..
Soltanto Zenaida aveva colmato la mia anima, la mia esistenza. Sempre, ovunque con me, giorno e notte, nel sonno e al risveglio, ella sembrava fosse tutt’uno con il mio cuore, scorresse nelle mie vene. Lei racchiudeva il principio e la meta del mio esistere: come sarebbe stato senza di lei?..
E per la prima volta, puntando lo sguardo al futuro, sussultai! Cupo, solitario, freddo, terribile!..
Prese a farmi pena il mio sogno, la mia illusione, vana, ma così piacevolmente confortante, così nobilmente sublime…
Chi era che aveva rotto il mio incanto? Era forse giusto accusare Zenaida?.. No! Prevedendo il futuro, lei mi aveva indicato un sentiero che scompariva in un baratro, io avevo svoltato insieme a lei, avevo spontaneamente distrutto la mia unica, misera felicità; adesso non l’avrebbe ridestata più nulla!
E un desiderio di morte rimbalzava nel mio cuore ormai vuoto!
Cittadino solitario del mondo, un estraneo nell’immensa famiglia dell’umanità, non amato da nessuno, né legato ad alcuno, non sono forse superfluo sulla terra?.. Ho una sorella: quasi non la conosco; ho molti compagni, ma nessun amico… Ospite mio malgrado alla festa della vita, mi sono rimpinzato del mio destino, sono stato giovane, sono stato felice, ho assaporato il dolore e la gioia; il banchetto è terminato, è ora di andare a casa!.. Rimpiango soltanto di non averlo abbandonato prima, nel momento in cui, ammaliato dall’iniziale ingresso al bel mondo, guardavo tutto attraverso il prisma dell’incanto, scambiavo gli orpelli per oro, le parole per l’eco dei sentimenti. Rimpiango di non essere riuscito a portar con me il suo meraviglioso bottino. Ora è sorto il sole della verità, ha illuminato il belletto sui visi, il marciume sotto la vita artificiale, l’inganno nel sorriso, la malizia nello sguardo, negli abiti, nei colori. Maledetto sole! È ora di andare a casa!..
Mi accostai con avidità al pensiero di annientarmi e poco dopo, scambiando quel desiderio ardente per il presentimento del suo realizzarsi, gettai uno sguardo sereno al passato, come un uomo che ha fatto il proprio tempo, già escluso dall’elenco dei viventi.
Esistevo da ventitré anni; ma soltanto dall’incontro con Zenaida consideravo l’inizio della mia vita. Lei mi aveva strappato alla mediocrità, aveva ravvivato la scintilla divina che ardeva invano dentro di me; attraverso l’amore per lei avevo percepito dentro di me i sentimenti di un uomo simile ad un Dio vivente sulla terra, con lei avevo assaporato l’esistenza, tramite lei ne avevo tratto piacere, per poco, ma intensamente, smisuratamente… Lei era stata tutto per me; le dovevo tutto… Una lacrima di gratitudine e di commozione cadde dal ciglio sul mio petto, e vi riecheggiò in un rimprovero. Come avevo contraccambiato tutto ciò?..
In cambio della felicità le avevo restituito in dono un affronto, in cambio della vita un tormento, peggiore di mille morti.
Io, uomo orgoglioso, forte, vigoroso, ero entrato in lotta con una creatura debole, estenuata dalle torture della malasorte, dalle persecuzioni della gente; l’avevo schiacciata e stavo celebrando la mia vittoria… Bizzarro trionfo!.. Un lupo e un cinghiale sarebbero riusciti a fare lo stesso, e perfino meglio; sarebbero usciti incolumi dalla lotta; mentre io, incatenando Zenaida alla gogna, avevo avvolto anche me nelle sue catene; mi ero legato alla mia vittima, dopo aver assunto l’incarico di suo aguzzino…
Una sensazione di vergogna, di umiliazione, di disprezzo verso me stesso si era riversata nel mio cuore come un’onda rovente, l’aveva inondato, l’aveva inabissato.
E se il mio presentimento non fosse stato ingannevole, se ciò che mi attendeva per l’indomani fosse stato varcare il confine tra la vita e la morte, se lì mia madre avesse incontrato il suo bambino, il suo adorato bambino, al quale aveva trasmesso le ultime forze della vita che veniva meno con il suo latte, se avesse preteso da lui il rendiconto di ciò che aveva fatto dell’esistenza donatagli dal signore?.. Avevo vagato per il mondo senza giovare a me stesso e agli altri; avevo incontrato una donna, avevo gettato senza riserve tutta la mia esistenza ai suoi piedi e poi, quando lei aveva rifiutato quel dono che non aveva chiesto e che non le era necessario, l’avevo aggredita, l’indifesa, l’avevo martoriata, avevo macchiato l’onore del marito, avevo disposto arbitrariamente della mia propria vita e di quella del prossimo… Un nobile, esemplare resoconto di una bestia definita uomo con la ragione, con l’anima immortale!
Ero avvilito, annientato dal peso di quelle riflessioni, e a lungo, a lungo rimasi seduto, come inchiodato alla sedia. In tale stato mi sorprese la luce del giorno. “È il momento!” — disse allora la mia voce interiore, restituendomi le forze e la coscienza del presente.
— È il momento! – ripetei ad alta voce, e, rimproverandomi di viltà, balzai su, presi la pistola e mi recai sul luogo del duello.
Il mio avversario era già lì con un altro giovane ufficiale, che, dietro mia richiesta, si era fatto carico del ruolo di nostro padrino comune; mentre lui esaminava e caricava le pistole, io gettai uno sguardo curioso al mio fortunato rivale che il giorno prima, nell’impeto della passione, non ero riuscito ad osservare a dovere. Era ancora nel fiore della primavera; un giovanile rossore imporporava le sue guance; mi parve talmente bello, i suoi lineamenti rispecchiavano una tale genuinità e nobiltà che compresi quanto poteva essere intensamente amato da una donna e a quale disperazione la sua morte avrebbe potuto condurre la creatura che lo amava. Lo compresi e, ribollendo di una rinnovata vendetta come una bestia feroce, squadrandolo da capo a piedi, immaginai in anticipo la traiettoria della pallottola che doveva perforare due cuori; in cuor mio già godevo del sangue di lui e delle lacrime di lei.
Il padrino, misurata la distanza, ci consegnò le pistole; cominciammo lentamente a riavvicinarci, al segnale echeggiarono due spari: io avvertii un colpo al piede, il mio avversario stramazzò supino.
— Vsevolod!.. È morto! – gridò il padrino, strappandogli i vestiti e cercando di arginare il sangue che scorreva sulla neve in un rivolo caldo.
Un attimo prima avevo puntato a sangue freddo la pistola contro il cuore del giovane, avevo desiderato il suo sangue, ma le parole: “È morto!” — mi fecero sussultare. In un solo istante il mio odio era scomparso; avevo dimenticato in lui il mio rivale, vedevo soltanto l’uomo che avevo ucciso; la coscienza tuonò risonante contro l’assassino e, nonostante la mia ferita, mi precipitai verso il giovane morente.
Al suono della mia voce aprì gli occhi, concentrò su di me uno sguardo già velato dall’ombra della morte, fece un ultimo sforzo e con una voce sorda, appena percettibile, gemette:
— Avete ucciso l’onore… di un’innocente… e avete ucciso… suo fratello… Nel bel mondo… rendetele giustizia…
— Suo fratello?.. Suo fratello?.. — esclamai sgomento.
Ma davanti a me giaceva ormai un cadavere. Gli si erano serrate le labbra; aveva strabuzzato gli occhi; la vita, che solo poco prima aveva giocato sul viso con vivo rossore, si era tramutata in un pallore mortale; le passioni, alterando i lineamenti, avevano ceduto il posto ad una imperturbabile serenità; e in quel pallore, in quella serenità mi balenò una somiglianza… La raccapricciante verità mi aveva colpito come una bestemmia al Signore. La luce degli occhi si adombrò; l’assassino cadde privo di sensi sul cadavere dell’ucciso…
Non ricordo come mi portarono a casa, e per quanto tempo rimasi privo di sensi: un’altissima febbre si impossessò di me; per più di un mese la morte aleggiò sul mio capezzale e io la invocavo, la imploravo come un segno di misericordia celeste, ma la vita e la giovane età ebbero il sopravvento. Guarii.
Con il rinnovarsi delle forze aumentò in me anche il senso del mio peccato. Per quale ragione avevo ucciso un innocente? Per quale ragione avevo privato una sorella del fratello, di un fratello che le era fedele, forse, dell’unico suo amico sulla terra?.. E nel contempo, le persone che con tanta crudeltà avevano inveito contro Zenaida adesso la compiangevano, cercavano tutti i mezzi per tormentarmi. Da loro appresi seppur per caso, per vie traverse, che Zenaida, tornata il giorno prima da casa del padre in occasione del ballo che si dava per lei, aveva portato con sé il fratello, in visita a suo marito; che lei e il giovane che io avevo ucciso erano gli unici figli di un anziano benemerito nobile; che dopo il terribile incidente la maldicenza, disgraziatamente rapida, aveva informato il padre del disonore della figlia e della morte del figlio; che il vecchietto non aveva sostenuto il duplice colpo, e quando la figlia, non sapendo, evidentemente, niente, della mia vigliaccheria al ballo, si era precipitata dal padre per informarlo con cautela della loro comune disgrazia, il vecchietto non aveva voluto neanche vederla, ed era morto tra braccia estranee; che in seguito Zenaida aveva rifiutato il bel mondo, si era ritirata, sola, nella sua campagna e lì, respingendo tutti i conforti dei familiari, tutti i rimedi della medicina, si struggeva come una candela che si consumava. Altrettanto tardi appresi che il principe Svegorskij e il fratello di lei erano entrambi aiutanti di campo, e che la casuale somiglianza della figura e della fisionomia aveva più di una volta fatto sì che in società venissero presi uno per l’altro.
Per alcuni mesi rimasi agli arresti; mi processarono: la clemenza ridusse la mia colpa; in società mi perdonarono ancora prima, ma la punizione la portavo nel mio petto, una punizione di fronte alla quale tutti i castighi umani e tutte le opinioni del bel mondo mi sarebbero sembrati insignificanti. La mia immaginazione era percorsa da fantasmi spaventosi: nel sonno e al risveglio mi figuravo il volto del giovane ucciso e quello del padre morente, la disperazione della sorella e figlia, e ogni momento si sentivano, rotte da un rantolo di morte, le parole: “Avete ucciso l’onore di un’innocente e avete ucciso suo fratello!..” E sommando gli strazi, tutto il mio passato amore per Zenaida divampò con raddoppiato vigore. Fosse pur stata colpevole verso le leggi del bel mondo e perfino verso quelle della moralità; avesse pur lusingato astutamente me ed altri con lo scintillio di pregi fallaci; la sua leggerezza, la slealtà, la perfidia: tutto spariva tuttavia in confronto alla bassezza e alla malvagità del mio comportamento, tutto s’inabissava nell’immensità del mio delitto.
Sì! In quel periodo le perdonavo tutto e l’amavo indicibilmente! Sembrava che tutte le mie sensazioni, in quel momento ormai lontane dal bel mondo, la mia ambizione distrutta, il desiderio di gloria, la boria, l’orgoglio di una vita impeccabile, il mio passato e futuro annientati, in una parola, tutta la mia vita, si era concentrata in un unico sentimento, e quel sentimento era l’amore per lei. Prova a giudicare cosa mi accadde, cosa fui costretto a provare quando, dopo che furono trascorsi alcuni mesi, mi consegnarono una lettera — una lettera di Zenaida, — e quando dalle prime righe appresi che la sua voce discendeva su di me dalle sommità dell’altro mondo, che Zenaida non esisteva più e nell’ultimo istante della vita, riconciliandosi con il cielo e con gli uomini, mi aveva mandato il perdono, a me: l’assassino di tutto quello che le era caro sulla terra!..
E io, folle d’amore, ancora speravo di implorare, di riconquistare un incontro con Zenaida per udire la parola perdono dalle sue labbra… Mi nutrivo e vivevo di questa speranza!.. Ora tutto, tutto era finito per me!.. Ora per me la vita era il più terribile degli strazi. Il pensiero del suicidio cominciò ad allettarmi; ne gioivo, me ne deliziavo. Ma no! Non era in quel modo che dovevo incontrare Zenaida nell’eternità, con ancora il sangue caldo di suo fratello tra le mani, con il sigillo del ripudio e della maledizione sulla fronte; no! La morte per me era un conforto, una salvezza, ma io avevo meritato il castigo; purtroppo la mia vita sarebbe diventata un castigo!
E io vivevo!.. Il pentimento rodeva il mio cuore, l’afflizione inaridiva il corpo, neanche per un solo istante il ricordo del passato si assopiva dentro di me, lento, eterno, esso dilaniava il mio intimo, succhiava il mio sangue. Ma io vivevo, e vissi vent’anni!
La lettera di Zenaida, sacro pegno della nostra riconciliazione, è custodita persino adesso nel mio petto, e riceve ogni giorno le mie lacrime ardenti, la mia inestinguibile angoscia. Vi lascio una sua copia, ma da essa, vi supplico, non separatemi neanche dopo la morte. Lasciate che discenda insieme a me nella tomba e lì, davanti al trono dell’Onnipotente, che faccia ottenere il perdono al peccatore, rendendo testimonianza dei suoi tormenti sulla terra…”
[...CONTINUA...]
ILLUSTRATIONS
1. А. Šandor Kozin, portrait of Prince M. F. Golicyn (1840s) (courtesy of Russian Wikipedia).
2. А. Šandor Kozin, portrait of Princess L. T. Golicyna (1840s) (courtesy of Russian Wikipedia).
3. K. P. Brjullov, portrait of Prince М. А. Obolenskij (1846) (courtesy of Russian Wikipedia).
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