Translation 1.7 Elena Gan, Il giudizio del bel mondo

[CONTINUATO DA PARTE N. 6]

Elena Gan, IL GIUDIZIO DEL BEL MONDO (1840)
(traduzione a cura di Carmen Di Mario)


[PARTE N. 7]

COPIA DELLA LETTERA DI ZENAIDA N***

“Vlodinskij, voi avete ucciso mio fratello, mio padre, avete ucciso me, ma non vi scrivo per accusarvi, ma per perdonarvi; perdonarvi con tutto il cuore, che non ha serbato neanche un’accusa contro il disgraziato.

Sì, Vlodinskij, io vi perdono. Siete un cieco, non un criminale; siete soltanto un uomo come tutti gli altri: più debole e avventato che malvagio; vi siete infatuato di un’apparenza ingannevole; che vi perdoni Dio nei cieli e la vostra coscienza sulla terra così come vi perdono io!

Quando il vostro sguardo cadrà su queste righe, le mie ceneri già giaceranno insieme alle ceneri della mia famiglia, le nostre anime si fonderanno in un’unica preghiera dinanzi al Signore, ed Egli, misericordioso, farà discendere su di voi una serenità che non vi sarà più data né dal frastuono del bel mondo, né dalla pace della solitudine. 

Ecco tutto quello che volevo dire, che desidererei imprimere nella vostra anima quando la gente avrà cancellato le mie ceneri dalla terra e il mio nome dalla vostra mente; ecco quello che avevo già abbozzato all’epoca in cui la morte di mio padre e di mio fratello ricadde come un’accusa sul mio capo ed io, sentendo che tutti i principi vitali si erano spezzati nel mio cuore, non pensavo di sopravvivere al colpo fatale… La provvidenza decise altrimenti. Mentre il corpo, obbedendo alla legge della natura, lottava ostinatamente contro il declino, tutta la forza della mente e del sentimento divampò in me per l’ultima volta. Compresi quanto fosse faticoso per l’anima, proprio staccandosi dal corpo, sradicarsi da tutto ciò che è terreno, purificarsi da tutto ciò che è diventato vita della sua vita. Sì, Vlodinskij! Sull’orlo della fossa ardo ancora dal desiderio di giustificarmi nell’opinione dell’unica persona che è riuscita a comprendermi, dal desiderio di lasciare il mio nome senza macchia almeno in una sola, nobile anima.

Per giunta, mi sembra, quando la vostra giovinezza verrà meno, quando si placheranno le passioni, la mia discolpa sarà di conforto anche per voi. Voi mi amavate: lo vedevo e lo sentivo. Mi avete dedicato tutto ciò che c’era di più sublime nel vostro cuore e nella vostra esistenza: non vi piacerebbe, forse, consacrare il ricordo del vostro primo, puro amore con la consapevolezza della mia innocenza?

Ecco cosa mi spinge a rivolgere a voi l’ultimo suono della mia voce: pretendo il vostro rispetto almeno verso le ceneri di colei che è stata orgogliosa al punto da non riuscire a giustificarsi quando era in vita e a meritare quei sentimenti che la calunnia aveva allontanato da lei.

Queste righe contengono la confessione dei segreti più reconditi della mia anima. Adesso riesco a giudicare me stessa con tutta l’imparzialità di un estraneo, perché la mia vita passata si è già disgiunta, si è staccata da me, che sono ormai pronta a calare nella tomba. Credete alle mie parole, Vlodinskij, ascoltatemi con pazienza, siate indulgente verso la preghiera di una donna che non chiederà più nulla a nessuno.

Eravamo in due, siamo cresciuti in un profondo isolamento. Non conosco la causa dello straniamento dei nostri genitori dal bel mondo e dalla gente; penso che fosse la loro felicità. Non avevano bisogno di cercare nulla al di fuori della cerchia della vita familiare. I nostri primi anni trascorsero sotto il loro occhio vigile, protetti dall’amore della nostra mamma. Oh! Quale amore!.. Se vi dicessi che lei era la nostra nutrice, balia, educatrice, l’angelo buono sulla terra, neanche allora esprimerei quell’affetto sconfinato, disinteressato, pronto a sacrificare tutto, con il quale lei aveva reso felice la nostra infanzia. Per me specialmente le sue carezze erano più preziose, tanto più che tutta la tenerezza di mio padre era rivolta a mio fratello. Tuttavia, non conoscevo l’invidia; anzi, quando le mie idee cominciarono a maturare, mi affezionai a mio fratello attraverso un amore duplice: attraverso l’amore di una sorella e quello dell’adorazione verso mio padre, perché io lo adoravo, perché il rispetto di tutti coloro che ci circondavano, la sua sublime nobiltà d’animo, la sincerità, mi ispiravano venerazione, mentre il suo viso grave ed austero e la sua abituale silenziosità mi facevano tremare in sua presenza.

Mia madre, per natura, era l’esatto opposto di nostro padre. Giovane donna dal cuore fiducioso, affettuoso, dalla mente vivace ed energica, trasmetteva a qualsiasi cosa la sua indole innocente, vedeva in tutti il riflesso della propria bontà; tutto il mondo le sembrava radioso e meraviglioso come la sua anima. Sotto i raggi di quella mite anima benevola si svilupparono i miei sentimenti e maturò il mio intelletto, sotto il suo ascendente trascorse tutta la mia vita.

Cominciai presto a vivere, con il presentimento che mi fosse stata assegnata un’esistenza breve; mi affrettavo a dilettarmi della vita, percepivo d’istinto che la mia splendida alba sarebbe stata intorbidata dagli uragani del mezzogiorno. Non avevo ancora tredici anni quando nostra madre spirò; con lei ebbero fine le mie gioie… Prima di morire mi affidò mio fratello, molto più piccolo di me, debole e cagionevole dalla nascita, e mi raccomandò la serenità di mio padre. Da quel momento fui lasciata in balia di una libertà assoluta, selvaggia. Mio padre, affranto dal dolore, si dedicò esclusivamente all’educazione di mio fratello: io partecipavo volontariamente a tutte le sue lezioni, e i suoi severi giudizi sui doveri del cittadino, sull’onore, sulla nobiltà d’animo, sulla disponibilità a sacrificarsi rimasero profondamente impressi nella mia anima. Nel resto del tempo divoravo tutti i libri che si trovavano nella nostra biblioteca, vagavo per i boschetti, per i campi, oppure, condividendo sia giochi che i compiti di mio fratello, giravo insieme a lui a cavallo per i dintorni.

La mia mente si arricchiva di conoscenze, l’immaginazione avvampava studiando le età eroiche: mi abituavo a guardare il mondo su scala enorme, apprendevo gli eventi notevoli della storia, le passioni e le gesta di coloro che avevano nobilitato l’umanità, e rimanevo estranea soltanto agli scialbi mosaici della vita quotidiana, non conoscevo soltanto le leggende e le usanze dei nostri formicai mondani.

Impercettibilmente, il mio carattere si plasmava attraverso le impressioni della mente che si era temprata nell’orgoglio, nella fermezza, nell’amore per la patria, e che aveva assunto tutte le sfumature delle virtù maschili. Nel nostro burattinesco bel mondo, così grossolano con tutta la sua raffinatezza, la mia mente ed il cuore maturavano sotto l’influenza delle idee del secolo d’oro; maturarono e si rinvigorirono insieme ad esse. A quindici anni afferravo tutto con la mente, raggiungevo tutto con il cuore; già a quell’epoca le mie opinioni ed i miei sentimenti erano superiori a tutte le influenze esterne; si poteva modificarli non altrimenti che fondendoli di nuovo sulla fiamma di una delle passioni forti: allora avrebbero davvero obbedito alle nuove impressioni, avrebbero preso un’altra forma?

La sorella di mio padre si era trasferita da Mosca nella città dalla quale noi vivevamo a circa settanta verste di stanza. Venne a farci visita e rimanendo di stucco davanti alla mia rozzezza e goffaggine, cominciò a rimproverare mio padre, gli espose tutta l’importanza dell’etichetta per una ragazza, parlò così tanto e così bene da convincerlo ad affidare a lei la mia rieducazione. Mi trasferii nella sua famiglia.

Era una donna di mondo, fredda, indifferente a tutto, priva di qualsiasi risolutezza di carattere, priva di volontà, di giudizio, e che aveva riposto tutto il suo ingegno e tutti i suoi pregi nella realizzazione degli aspetti più mediocri dei regolamenti della società. Qualsiasi idea che non aveva oltrepassato la censura del bel mondo, che non era ricoperta della sua vernice, le sembrava un delitto, qualsiasi sentimento sincero un peccato mortale. Tali erano i principi in virtù dei quali allevava le sue figlie, e fu proprio quello il gorgo in cui io caddi dal mio placido isolamento; tuttavia, ancora per un bel po’, non notai i suoi abissi e i suoi vortici. Mi intimoriva, per via della soggezione, il pensiero dell’ingresso nel bel mondo, però nella mia immaginazione mi si figurava come un sontuoso teatro in cui venivano interpretati ruoli prestigiosi, a me noti dalla storia e dai romanzi. Tutti i personaggi, a mio avviso, si muovevano armoniosi, affiatati sul palcoscenico; tutte le scene volgevano ad un epilogo grandioso. E in quel mondo io portai con me un cuore puro, ricolmo d’amore e di una mite speranza nella benevolenza della gente, nei santi pensieri circa le loro virtù e nella fede ardente nella mia seppur piccola fetta di felicità sulla terra.

Non era passato neanche un anno quando le mie innocenti convinzioni, i miei sentimenti, sinceri verso tutti, furono infranti, furono schiacciati dal malanimo della gente, dalla loro maldicenza e livore, dalla loro pervicace brama di scovare sempre monete d’oro nella tasca del vicino e tetra malvagità nei suoi comportamenti più innocenti. “Per quale ragione, a che pro?” — ripetevo perplessa, comparando la realtà con i racconti di mia madre, con i giudizi di mio padre, e passavo da un estremo all’altro. Mi adiravo verso tutti. Poveretti! Li incolpavo di essere persone e non dei olimpici come li aveva dipinti la mia immaginazione. Non riuscivo a credere, tuttavia, che tutto il bel mondo fosse analogo all’ambiente in cui la mia vita aveva cominciato a muoversi; nella folla di coloro che mi circondavano non volevo riconoscere degli esseri umani e, con tutto il cuore, li sommergevo nel disprezzo.

Quello segnò l’inizio di tutti i miei errori.

A casa di mia zia vivevo oppressa e completamente estraniata da tutti. Nessuno era capace o aveva voglia di comprendermi; neanch’io, da parte mia, riuscivo a rassegnarmi al loro modo di pensare e ai loro comportamenti: mi respingevano, mi coprivano di scherno, ad ogni passo deridevano il mio amor proprio; e poi la mia timidezza, la mia fermezza nel carattere, che definivano testardaggine, la sgarbatezza delle opinioni, la mia asocialità: ascrivevano tutto alla scarsità di intelletto, e giunsero a definirmi con le parole: “è sciocca, dunque, incurabile”. Io accolsi con freddezza la loro sentenza e respinsi con orgoglio tutti i mezzi per giustificarmi.

Quando mio fratello compì quindici anni, mio padre, desiderando tenere d’occhio i primi passi del suo ingresso nel bel mondo, lo arruolò nel reggimento come junker, poco prima dell’occupazione degli alloggi nella nostra città. Allora la mia infantile amicizia con mio fratello si riallacciò e si strinse con vincoli suggellati dal nostro prezioso sangue. Ad essa unii tutta la tenerezza di una sorella, tutta la premura di una madre e, non ancora guarita dalle ferite che la lotta contro la società mi aveva provocato, raccolsi tutte le mie forze per mostrare ad essa i macigni invisibili contro i quali mi ero infranta nella cecità della mia inesperienza, per proteggere l’amata testa di lui dalla minaccia che aveva schiacciato la mia anima.

Adesso giunge un periodo che racconto a fatica, con dolore. Sull’orlo della tomba mi sono riconciliata con tutti: non voglio gravare di accuse nessuno, ma non posso tacere a proposito della principale epoca della mia vita.

Il comandante di mio fratello era il generale maggiore N***, egli chiese la mia mano, ma io lo conoscevo così a malapena, mi sembrava così inaccettabile concedermi ad un uomo che non amavo, quasi ad uno sconosciuto, che, senza esitare, rifiutai l’onore che mi era stato offerto, malgrado tutte le esortazioni di mia zia. Ma, poco dopo, le circostanze mutarono. Mio fratello combinò una di quelle birichinate davanti alle quali la disciplina militare è irremovibile. Il generale aveva il diritto e voleva mostrare un solenne esempio del suo rigore verso di lui. Tutti gli sforzi dei nostri familiari risultarono inefficaci. E, messo a tacere l’orgoglio, mi risolsi io stessa a ricorrere al generale con una preghiera! L’occasione si presentò presto; alla prima mia allusione a mio fratello assunse un’aria gelida; a tutte le mie implorazioni, alle suppliche, rispondeva con un’alzata di spalle o con un cantilenante: “mi dispiace molto”, appellandosi ai doveri di un superiore; quando, infine, esaurita tutta la sua magniloquenza, io me ne stavo in lacrime dinanzi a lui, con la disperazione nel cuore, il generale, cambiando di colpo il tono e la voce, cominciò a parlarmi del suo amore e concluse il tutto con le parole: «Un superiore non può perdonare nulla ad un subalterno, ma dimenticherebbe facilmente tutte le offese di un fratello!» — e mi lasciò con un profondo inchino. Il destino di mio fratello era nelle mie mani, potevo forse esitare? 

Però, riflettendo sui comportamenti del generale, presumevo si fosse sbagliato sul mio conto e ritenevo un dovere rivelargli la verità. “Lui mi ama, — così pensavo, — il desiderio di possedermi lo ha spinto a non avere remore per raggiungere il suo scopo”. Ma, insistendo con tale tenacia nel suo desiderio, mi considerava, probabilmente, una bambina dal carattere docile, arrendevole a tutte le nuove impressioni. 

Da me respinto una volta, N*** poteva ancora sperare che l’abitudine avrebbe supplito al sentimento, che a lungo andare il suo amore sarebbe stato ricambiato dal mio, altrimenti, probabilmente, non avrebbe insistito nel chiedere la mia mano. Ma io, nonostante la salvezza di mio fratello, dovevo forse, dimenticando l’onore e la coscienza, lasciarlo nell’errore? Non dovevo forse aprirgli la mia anima, convincerlo che le sue congetture erano irrealizzabili?.. Io potevo disporre della mia libertà e sacrificarla con gioia per la serenità dei familiari, ma ingannare un uomo approfittando della sua cieca passione, io non potevo, non volevo farlo, anche se da ciò dipendeva addirittura la vita di mio fratello.

Avevo appena fatto il mio ingresso nel bel mondo che molti già avevano chiesto la mia mano, ma io avevo rifiutato tutte le proposte, senza lasciare a nessuno neanche l’ombra di una speranza. Erano avvezzi a considerare inscindibili amore e matrimonio, mentre io li guardavo da un punto di vista particolare. Nel mezzo del crollo generale delle mie idee mondane, una soltanto si era conservata in tutto il suo vigore: l’idea che l’amore vero, eterno fosse possibile. Speravo in essa, credevo come nella mia vita che la mia utopia potesse avverarsi e, portando in seno il seme di un sentimento sacro, non lo sciupavo in legami meschini, lo custodivo come un dono del cielo che avrebbe potuto rendermi felice soltanto una volta nella vita. Tutte le interpretazioni in prosa e in versi dei miei scrittori mi sembravano pietosamente mediocri, non meritevoli di una sola scintilla del mio fuoco ardente. Sentendo quanta energia era celata nel mio petto, quale paradiso d’amore avrei potuto donare alla persona che amavo, non desideravo vendere il mio tesoro in cambio del misero obolo di un indigente; consideravo un delitto fondere una fiamma pura con il fuoco di un razzo sparso ai quattro venti, e avrei preferito soffocare in me quel dono inutile inesplorato,che non poteva né dare, né riscattare la felicità, piuttosto che prometterlo ipocritamente ad un credulo pretendente e nasconderlo poi nel petto per contentarlo con le misere briciole di una gelida, non piena reciprocità. 

Ecco come intendevo il matrimonio, ecco come volevo descriverlo al generale e lasciargli giudicare se poteva cercare la felicità in un vincolo in cui non c’era speranza di ispirare neanche compassione, figuriamoci amore. Alla mia serenità non pensavo neppure, dacché era stata messa sulla bilancia insieme al perdono di mio fratello.

Il mattino seguente arrivò il generale, — io mi ero preparata alla sua visita, — dietro sua richiesta restammo soli; allora, dando seguito al mio proposito, gli svelai i miei sentimenti, il mio modo di pensare, tutto il sacrario della mia anima, non ancora accessibile a nessun mortale, e attesi la sua sentenza.

N*** mi ascoltò senza interrompermi, con l’indulgente sorriso di un esperto, poi spostò verso di me la sua sedia e disse: 

— Tutti noi a diciassette anni ci siamo dilettati di sogni analoghi; alla mia età si guarda ad essi come a gingilli di cristallo: sono graziosi, ma fragili!

Subito dopo ripeté la sua proposta; io l’accettai; mio fratello fu perdonato senza sospettare a quale prezzo era stato riscattato tutto il suo futuro. N*** esigeva soltanto che Vsevolod non prestasse servizio sotto la sua autorità, s’incaricò di provvedere al suo trasferimento nella guardia. Vsevolod si recò immediatamente a Pietroburgo con delle lettere di raccomandazione del generale; mio padre approvò la mia scelta; mi sposai, giustificando la determinazione del maturo N*** con la sua passione verso di me; ma, poco dopo, la sua preoccupazione affinché mi fosse rapidamente accordata la mia considerevole dote dileguò anche quel sogno rassicurante.

Il mio destino si era compiuto! Non mi restava più nulla da desiderare, nulla da sperare; cosa poteva portarmi il tempo? Nel frattempo, la sottile, allegra mente di mio marito, condita da tutta la causticità dell’ironia, mi rubava ogni giorno qualche dolce speranza, qualche sentimento innocente. Tutto ciò che ammiravo fin dall’infanzia veniva deriso dalla sua fredda razionalità; tutto ciò che veneravo come un sacrario mi veniva presentato in un aspetto penoso e triviale. Impercettibilmente, insieme alla mia fede nel sublime, scomparivano la finezza e la nitidezza delle mie concezioni. I motteggi, che prima mi riducevano in lacrime, adesso non destavano alcun rossore sulle mie guance. Mi abituavo alla lettura preferita di mio marito, ai suoi giudizi, persino ai rozzi calembour degli estranei, che, cercando di adeguarsi al tono del padrone di casa, incalzavano interrompendosi a vicenda con freddure, non ammorbidite neanche dalla sua arguzia.

Molto tempo prima, ancor prima del matrimonio, notando che le mie migliori iniziative venivano interpretate in modo errato, che da qualsiasi mio comportamento, da qualsiasi mia parola, la gente trovava il sistema per spremere l’essenza dello scherno, mi ero scrollata di dosso il giogo delle loro opinioni. Ora esso mi appariva ancor più indegno, quando le persone che mi avevano definito una sciocchina avevano cominciato a lodare in me la donna intelligente e garbata soltanto perché il destino mi aveva gettato addosso il rango di moglie di generale.

Non legata alla società dalla riverenza, né dal timore delle sue sentenze, vivevo nel bel mondo come in un deserto, dove solo i sassi e le nubi passeggere erano miei testimoni; vivevo sotto l’influsso del mio personale rispetto per me stessa e dell’esempio di mia madre, e consideravo le opinioni mondane un miraggio che non avrebbe ristorato nessuno, che non avrebbe appagato la sete di nessuno, ma avrebbe ingannato soltanto colui che guardava le cose da lontano, attraverso quel vapore illusorio. Non mi aveva mai disonorato un pensiero delittuoso, ma non mi obbligavo a seguire rigorosamente le usanze correnti, non mi coprivo con una maschera davanti alla folla, non inseguivo i suoi elogi, non temevo i suoi biasimi: in breve, in tutti i miei sentimenti e comportamenti, rendevo conto soltanto al Giudice Supremo e al Suo rappresentante sulla terra: la mia coscienza.

Come accade di solito, quanto meno mi curavo delle persone, tanto più esse si occupavano di me. Gli occhi e le orecchie di quell’Areopago[1] onnipresente mi seguivano scrupolosamente; il mio manifesto disprezzo verso le sue definizioni inaspriva la società contro di me, e gettò infine in essa il seme di quell’opinione che divenne in seguito il giudizio del bel mondo e la causa del mio soccombere. Ma in quel periodo non presagivo ancora nulla di minaccioso, forse perché, senza aspettarmi nulla, non me ne preoccupavo affatto.

Il bel mondo si faceva beffe di me senza pietà, deridendo tutte le concezioni della mia infanzia, dileguando tutti i tesori delle mie speranze. Nessun mio pensiero in proposito aveva trovato conferma, nessuna aspettativa si era avverata. L’unica cosa in cui non avevo riscontrato finzione era la mente umana: la mente creativa, giocosa, versatile, che da tempi remoti già ammiravo nelle sue creazioni.

Nel gran mondo, in cui l’indispensabile cultura e l’incessante afflusso di idee altrui conferiscono una sorta di bagliore alle menti più limitate, persino un intelletto realmente geniale non stupisce con il suo scintillio, come fa invece nell’assoluta oscurità del mondo ordinario. Lì esso trasmette agli altri la propria forza vivificatrice, illumina gli intelletti degli altri e, alla sua luce, anch’essi rilucono, riflettendo lo splendore da esso ricevuto. E, per giunta, lì l’attenzione della società è talmente distratta dall’eterogeneità degli oggetti circostanti, che a migliaia passano accanto al genio e non si accorgono di lui. Al contrario, nella routine, strettamente contrassegnata da abitudini radicate e da una grama quotidianità, le quali opprimono e non di rado annientano sul nascere tutte le capacità; in un angolo sperduto dove penetra a malapena soltanto il raggio di luce che precede l’alba, un uomo di grande intelletto e conoscenze brilla come una meteora mirabile. Io vegetavo in una routine immutabile, e soltanto le meteore incontrate di rado catturavano la mia attenzione, destavano in me un sincero stupore. È vero che a volte, rallegrata dagli incontri con un uomo d’ingegno, affascinata dalla forza e dal bagliore del suo intelletto, ero lieta della nuova conoscenza e dell’occasione di riversare le mie idee in una luminosa immaginazione, non ero troppo rigorosa nella cernita degli argomenti delle nostre conversazioni; ma, abituata mio malgrado alle libere interpretazioni di pensieri banali, triviali, come potevo non perdonare in un uomo d’ingegno la libera espressione, avvolta da tutti i colori della perspicacia?

Allora, ricercando spontaneamente in me ciò che veneravo così profondamente negli altri, non potei non notare la confusione e l’indeterminatezza delle mie cognizioni, e perciò, con un nuovo ardore, mi apprestai a leggere, a studiare, a riflettere. Nei circoli mondani cominciarono a circondarmi di grande attenzione, di plausi; avrei respinto con disprezzo una lusinga che riguardasse il mio aspetto, la mia acconciatura, ma, a lungo oppressa dalla mediocrità che mi era stata riservata in passato, non ero insensibile ai cori che esaltavano il mio intelletto, agli elogi della gente, che aveva meritato la mia stima. L’intelletto diventò il mio conforto, il mio orgoglio, la mia ricchezza, ed io accettavo soltanto il tributo offerto ad esso, con vanità, persino con piacere.

E, tuttavia, ero forse felice? Mi appagava forse quell’esiguo trionfo?.. No! Cento volte no! L’ebbrezza della lusinga agiva solo all’istante, e agiva unicamente sulla ragione. Il cuore richiedeva complicità e non complimenti; amicizia e non ampollose lodi.

L’intelletto può riempire l’esistenza di un uomo: egli vive una vita più superficiale e la luce che le sue capacità intellettive spandono intorno a sé può riflettersi su di lui attraverso la gloria, la ricchezza, il rispetto, persino attraverso le benedizioni della gente. L’intelletto di una donna, come il fuocherello di un faro lontano, brilla, ma non dilegua l’oscurità circostante; e se la vita le si rivolge con freddezza, non c’è ragione che possa riscaldare il suo cuore!..

Oh, quante volte, di ritorno dalle fragorose compagnie, dove l’attenzione degli oziosi, la lusinga dei vaniloqui e persino il bilioso brusio degli invidiosi avevano offerto abbondante nutrimento al mio amor proprio; quante volte, scaraventando insieme alla ghirlanda del ballo tutto quello che aveva inebriato per un po’ la mia mente, io, sfinita, profondamente scoraggiata, trascorrevo il resto della notte insonne in lacrime, in riflessioni che rodevano l’anima! Dio ha donato alla donna una splendida predestinazione, sebbene non tanto gloriosa, non tanto clamorosa quanto quella che ha disposto per l’uomo: la predestinazione di essere un Penato familiare[2], il conforto del compagno prescelto, la madre dei suoi figli, di vivere la vita degli affetti e di procedere con il capo fiero e l’anima radiosa fino alla fine della sua benefica esistenza. Non è forse degno, un destino simile, di invidia e di benedizioni? Ma vivere orfana, in una monotonia non turbata da nulla, in una nebbia, attraverso la quale non riesce a penetrare neanche un raggio di sole, neanche una goccia di rugiada mattutina; sentire che l’unica felicità possibile nell’esistenza di una donna non era mai stata e non sarebbe stata la mia sorte; non avere nessun desiderio, non cullare nessuna speranza; non stringersi con l’anima a nessun domani e, sciupati senza scopo i propri giorni, restituire alla tomba l’esito di una vita inutile, come una ricchezza inutilmente affidata ad un uomo abbandonato in un deserto nel quale non gli è necessario l’oro, ma un pezzo di pane: ecco la condizione che raffreddava la mia anima, che soffocava in essa tutta la capacità di agire, tutte le forze dell’energia!

Ed in quelle conversazioni segrete con me stessa non potevo non sentire che la natura mi aveva creata per una vita silenziosa, anonima; che soltanto nella cerchia familiare avrei potuto conoscere e distinguere intorno a me la felicità: lo scintillio, gli svaghi, il festoso frastuono del bel mondo mi scivolavano addosso senza ammaliare l’anima dentro di me. Cosa dovevo farmene degli elogi e dello stupore della gente? Cosa del mio intelletto e del talento? Il primo mi era stato dato dal fato, il secondo era stato acquisito con pazienza: chiunque avrebbe potuto averli. Ma il mio cuore era stato dato unicamente a me! In esso era custodita la fonte del bene, la fonte della felicità; in esso erano nascosti i tesori dei sentimenti, un paradiso d’amicizia e d’amore, ma nessuno lo vedeva, lo notava, nessuno voleva riconoscerlo, né apprezzarlo: cosa m’importava degli inchini, dei sorrisi insinuanti, privi di simpatia? E neanche una volta un pensiero frivolo mi balenò nella mente, neanche una volta un sorriso ravvivò il volto, senza che nello stesso istante il cuore non s’inondasse di dolore, non scontasse un istante di vana gioia con il triste riposo della solitudine!

In presenza di mio padre e di mio fratello ridevo nonostante le ferite, temendo di turbare con una lamentela la serenità riscattata con il prezzo della mia vita; ma non potevo, non trovavo in me le forze per inaridire le lacrime che ne erano all’origine, per soffocare il sospiro sul punto di nascere. Ecco il solo sentimento che aveva vinto in me tutte le lotte del senno e della volontà; un sentimento del quale mi rimproveravo con durezza, desiderando ardentemente di portare la mia croce non solo con rassegnazione, ma con coraggio, con gioia. Dio sa che nessuno è mai stato testimone della mia pusillanimità, ma a voi non voglio nasconderla; scegliendovi come mio giudice postumo, voglio confessare davanti a voi tutto, fino all’ultimo fremito, fino al benché minimo pensiero…

Negli incessanti spostamenti delle truppe, seguivo ovunque mio marito; ero sempre, dappertutto, solitaria, non mutavo né i pareri, né i miei comportamenti. Le persone assennate mi donavano attenzione dappertutto; gli sciocchi tessevano fole assurde contro di me. Ma c’era una terza categoria di persone, la più pericolosa per tutto ciò che esce dalla cerchia dell’ordinario. Spesso queste persone sono dotate di senno e di molti pregi, ma il loro intelletto non è né abbastanza forte per domare l’amor proprio che li domina, né abbastanza debole perché, abbagliandoli di insolente baldanza, possano mettersi al di sopra del resto della creazione visibile. Essi sentono i propri difetti e prendono ogni superiorità del prossimo come un’offesa personale; non possono perdonare all’altro neanche l’ombra della perfezione. Oh, tali creature sono più spaventose degli appestati! Scherniscono la triviale maldicenza degli sciocchi, ma alle loro prudenti insinuazioni, alle loro meditate, verosimili calunnie non possono non credere. Sono proprio questi candidati arruolatisi volontariamente a geni a costituire il tribunale supremo: proprio questo genere di persone s’incrudelirono particolarmente contro di me e diffusero le notizie più velenose.

Venne il momento in cui quelle notizie giunsero persino al mio orecchio; come succede sempre, si riversarono su di me tutto d’un tratto, da tutti i lati; mi stordirono, mi fecero girare la testa. Mentre la calunnia sibilava ai miei piedi, mentre strisciava nella polvere, io la guardavo con indifferenza; ma giungere fino al mio nome, fino al mio cuore, ascrivendomi comportamenti estranei perfino ai miei pensieri; accusarmi di venir completamente meno ai miei obblighi, ai precetti della mia fede e dell’onore: ecco quello che mi colpì dolorosamente, che macchiò di fiele più di un momento della mia vita…

Da quel momento io, per quanto era possibile, mi allontanai dalla società: presi ancor più a sfuggire la gente; rimpiazzai le preoccupazioni sullo scintillio dell’intelletto con la riflessione; sottoponevo al mio severo giudizio la vita passata; osservavo la società non attraverso il prisma dell’inasprimento precedente, ma con tutta l’imparzialità del senno ormai raffreddatosi rispetto all’ardore iniziale. E tutto mutò ai miei occhi! Vidi lo stesso bel mondo, la stessa gente, ma già da un’altra prospettiva, e, giudicando a mia volta il bel mondo e la gente, li giustificavo in molte cose.

Gli uomini sono bambini eternamente crucciati, eternamente in affanno. Rincorrendo frettolosi l’inafferrabile indomani, hanno forse il tempo di discernere e sviscerare l’essenza delle cose che colpiscono i loro sguardi?.. Lanciano di sfuggita una rapida occhiata al suo aspetto esteriore e portano con sé soltanto il ricordo di quella esteriorità. Non è colpa loro se spesso lo sguardo non cade su una cosa dalla giusta prospettiva: così hanno visto, così hanno giudicato, così hanno condannato. Hanno ragione! 

Povera la donna che le circostanze o la propria volontà inesperta innalzano su un piedistallo che si trova al crocevia di popoli che corrono dietro alla vanità! Che disgrazia se l’attenzione delle persone si soffermerà su di lei, se essi le rivolgeranno la propria leggerezza, se la sceglieranno come meta di sguardi e giudizi. E povera lei, cento volte povera lei, se, lusingata dalla propria pericolosa ascesa, getterà uno sguardo sprezzante sulla folla che si agita ai suoi piedi, non condividerà con essa lo svago e i capricci e non chinerà il capo davanti ai suoi idoli!

Compresi finalmente questa grandiosa verità, e con tutto il cuore mi riconciliai con i miei persecutori.

Dopo essermi liberata dal momentaneo abbaglio, dopo aver purificato la mente da pensieri boriosi e vani, dopo aver scacciato dal cuore tutto quello che lo faceva fremere di sensazioni ostili, mi trasportai spiritualmente agli anni della mia prima adolescenza, ridestai nell’anima i precetti di mia madre, desiderai sinceramente, con tutto il cuore, amare il mio prossimo con il suo amore inesauribile, guardare il mondo attraverso i suoi occhi. Se la vita è talmente povera di sostanza che un uomo non può vivere senza un sogno, allora è meglio, permettimelo Signore, ingannarsi per ignoranza del male in uno stesso groviglio di vizi, che non per il sospetto del vizio in una semplice debolezza!.. Ecco cosa imploravo con fede, con le lacrime, desiderando ardentemente di effondere almeno sugli altri quella felicità che io conoscevo solo in virtù della sua assenza… Il Misericordioso udì la mia preghiera: lo spirito di mia madre m’illuminò, mi procurai la serenità nella quiete dell’isolamento e il conforto nella mia propria anima.

Ma cancellare le tracce dei miei errori precedenti nella mente della gente, far dimenticare loro il passato non era possibile. Ovviamente, il seme del male è più fecondo del seme del bene, perché mentre quest’ultimo di solito viene coperto dalle erbacce e si smarrisce, i germogli del primo sopravvivono all’uomo che li ha seminati.

Ed ecco tutta la mia vita, Vlodinskij; la vita materiale e spirituale. Ve l’ho presentata da entrambi i lati; e adesso che conoscete tutte le mie colpe, tutti i miei errori, confrontateli con la mostruosa esagerazione del “giudizio del bel mondo” e giudicate di quanto le accuse abbiano superato le colpe.

Adesso mi resta ancora da accennare ad una sola, unica, radiosa epoca della mia esistenza che mi ha illuminato poco prima del mio abbandono del mondo, come se fosse una ricompensa per le mie sofferenze trascorse, come espiazione di tutte quelle che mi attendevano nel futuro. È stato il dono d’addio della vita, il pegno della mia totale riconciliazione col cielo e con la gente.

Vlodinskij, ricordate il tempo in cui il destino ci spinse così curiosamente l’uno verso l’altra in terra straniera, sotto un tetto straniero?.. Riportatelo alla vostra mente, trasportatevi nelle ore in cui, dimenticati i turbamenti del bel mondo, ci abbandonavamo così serenamente al piacere di leggerci a vicenda nell’anima; quando, sotto la ruggine delle abitudini mondane e dell’impressione, vi svelai i talenti così sublimi, la grande disposizione alla magnanimità, e quel sentimento segreto, spesso ignoto all’uomo stesso, nobile, raffinato, quella aspirazione alla perfezione celeste, che, assumendo la forma di una parola o di un’immagine nelle anime di pochi prescelti e riflettendosi nelle loro opere, sorprende il mondo con i prodigi della poesia, dell’armonia, della pittura, con la realizzazione del divino ora nel marmo, ora su una caduca tela…

Vi scorsi con il mio sguardo spirituale, vi compresi con simpatia; e adesso che tutti i miei legami con il mondo sono stati strappati, che tutte le relazioni sono state distrutte, adesso posso confessare, senza ingiuriare né il cielo, né l’onore: io vi ho amato!.. Sì, Vlodinskij, vi ho amato con tutta la forza del mio primo amore casto; mi sono stretta a voi con tutti i sentimenti, rinnegati, ingannati, derisi da tutto quello a cui non si erano legati nel bel mondo. Nel rifugio che il vostro amore aveva creato per me, la mia anima, che aveva vissuto, ma non aveva provato neanche un solo istante di vita piena; che si era bruciata nel torrido deserto del bel mondo, che era estenuata dall’odioso peregrinare, si ristorava e si rinfrescava. Il vostro amore puro, timido non la spaventava ma la vezzeggiava, non allarmava la mia virtù, al contrario, la irrobustiva, la innalzava con un nuova aspirazione al celestiale. La passione inebria la mente, calcia i sentimenti, li calpesta e li brucia come un vortice d’Arabia brucia un tenero fiore cresciuto per caso su un sasso. La passione non può né dare, né consolidare la felicità. La vostra splendida anima la respinse, comprendendo la reale beatitudine dell’amore mite di un dio olimpico. Ed io mi abbandonai ad esso fiduciosa, non invocavo né il dovere, né la coscienza per combatterlo: il suo sacro fuoco era il suo migliore custode, il mio più sicuro argine dal vizio. 

Nel corso di quattro mesi non avete tradito la mia fiducia né con una parola, né con uno sguardo; neanche per un solo istante avete turbato il mio paradiso nel quale io respiravo una vita talmente piena, dimenticando il mondo con il suo vuoto e l’ostilità, dimenticando tutta la pochezza e lo squallore della mia esistenza… Vi ringrazio, Vlodinskij! Vi ringrazio per aver realizzato i miei sogni più belli! Vi ringrazio per il vostro amore, per i miei sentimenti, per le lacrime di gioia, l’unica gioia a me concessa dal cielo sulla terra!


Non cadete nell’errore di considerare ipocrisia la studiata rigidità con cui mi rivolgevo a voi; non accusatemi di essere falsa se in quel periodo non ero come mi aveva vista prima il bel mondo: lo ripeto, la mia mente era stata corrotta, ma il cuore era rimasto sempre nella sua purezza primigenia. Con gli altri vivevo soltanto con la mente, ed essi ne vedevano i riflessi impuri, ma con voi, alla vostra presenza, si ridestarono i santi principi della mia infanzia e il fuoco del cuore purificò, illuminò la mente, già in passato trasformata dall’esperienza; in vostra presenza non potevo essere una donna prosaica e meschina: mi sforzavo di mitigare nella mia anima tutte le tracce delle offese, dei dubbi, degli inasprimenti, di scacciare da essa perfino il ricordo della precedente vita innocente, ma estremamente provata. Avrei desiderato rigenerarmi, incarnarmi nella purezza dell’inconsapevolezza infantile, splendere del bagliore dell’angelica innocenza per entrare orgogliosa e intrepida in un paradiso le cui porte per la prima volta mi si erano spalancate dinanzi.

Il nostro amore reciproco, profondamente nascosto persino a noi stessi, lo veneravo come un sacrario; lo proteggevo come una madre protegge l’illibatezza della sua amata figlia. Una minima burla che l’aria greve del bel mondo soffiava su di esso, un’arguzia un po’ licenziosa mi spaventavano come un delitto. Persino per le nostre conversazioni quotidiane, per esprimere pensieri e sentimenti, avrei voluto trovare una nuova lingua, non profanata dall’uso triviale…

Sapete che se a quell’epoca una qualche occasione, restituendomi la libertà, ci avesse permesso di rivelare i nostri sentimenti davanti agli occhi di tutto il bel mondo, io avrei rifiutato di unirmi a voi per il timore di rendere pubblico il mio amore, per la sola paura che la lingua ambigua delle persone, il loro sguardo invidioso ne profanasse la purezza, che i loro sorrisetti indiscreti, anche una casuale imprudenza, ne oltraggiasse l’innocenza? 

Ecco a quali sommità avevo innalzato il sentimento di questo amore, di quale venerazione lo avevo circondato! E proprio nel momento in cui notai che pensieri terreni si erano avvinghiati nella nostra anima sulle ali dorate della giovinezza, io, senza esitare, preferii l’eterna separazione alla lievissima ombra che, nascendo in voi, la passione poteva gettare sull’alba limpida delle nostre relazioni iniziali. Desideravo portare con me il sentimento dell’amore in tutta la sua forza, in tutta la sua pienezza, un sentimento non intorbidato dalla passione, non schiacciato da nessuna lacrima di pentimento! Desideravo che la vostra idea di me bruciasse appena nella vostra mente come una scintilla celestiale, affinché il breve incontro con me restasse impresso nella vostra intera vita come una scia luminosa, distinta da tutti i pensieri sui piaceri passati e futuri dell’amore, di quell’amore che tanto presto smette di ardere in altre donne…

Non temete dunque di ridestare nella vostra anima i sentimenti consacrati a me. Scacciate da essa al più presto gli spauracchi creati dal giudizio del bel mondo attorno alla mia figura; amatemi del pio amore passato: nemmeno un istante ho smesso di essere degna di esso! E che il ricordo di me, che il mio perdono, che la vostra costante aspirazione ad alleviare i dolori altrui, ad allietare tutto ciò che vi circonda rimuovano dalla vostra coscienza il peso del suo opprimente peccato, vi riconcilino con il Signore, illuminino la vostra vita con un raggio di grazia celeste…

Il giudizio del bel mondo adesso grava su entrambi noi: io, donna debole, sono stata distrutta come un fragile fuscello; voi, oh voi, uomo forte, creato per lottare contro il bel mondo, contro la malasorte e contro le passioni della gente, non solo sarete assolto, ma persino osannato, perché i membri di quel terribile tribunale sono tutti pusillanimi. Dall’ignominioso patibolo sul quale esso ha posto la mia testa, quando il fatale ferro della morte è stato già sollevato sulla mia nuca innocente, vi invoco ancora con le ultime parole delle mie labbra: «Non temetelo!... È schiavo del forte e distrugge solo i deboli…»”

***FINE***




NOTE 

[1] L’Areopago era un tribunale istituito in Grecia intorno al 624 a. C. che sorgeva su una delle colline di Atene, da cui prende il nome.

[2] Nella religione romana, i Penati familiari o minori erano gli Spiriti Protettori di una famiglia e della sua casa.

ILLUSTRATIONS

1. K. P. Brjullov, portrait of the architect Konstantin Thon (1823) (courtesy of Russian Wikipedia).

2. A. M. Vasnecov, "The Noise of the Old Park" (Шум старого парка, 1926) (courtesy of Art Library). 

3. F. P. Tolstoj, "Bouquet of Flowers, Butterfly, and Bird" (1820) (courtesy of Art Context).



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