Translation 1.5 Elena Gan, Il giudizio del bel mondo

[CONTINATO DA PARTE N. 4


Elena Gan, IL GIUDIZIO DEL BEL MONDO (1840)
(traduzione a cura di Carmen Di Mario)

[parte N. 5]

Non appena mi mostrai nella stanza da tè, i miei parenti mi attorniarono di domande circa dove e in che modo avessi conosciuto Zenaida.

— È interessantissimo! — cinguettavano. — Possibile che a tanti pregi unisca anche la capacità di mutare aspetto, come i serpenti mutano le proprie squame?.. Possibile che all’estero interpreti il ruolo della Penelope sentimentale?.. [1] Possibile che tu sia finito in un tale grossolano inganno?..

A fatica trattenevo la mia indignazione, rispondevo a tratti, brevemente, interrompevo i loro discorsi con domande su argomenti che non riguardavano affatto Zenaida. Tacquero, ma continuarono a scambiarsi occhiatine e sorrisetti ironici tra loro.

Terminata la colazione, la zia mi prese per mano, mi condusse nella sua stanza e dopo una lunga premessa su quanto avesse amato mia madre e su quale amicizia nutrisse per me, prese a discorrere di quanto fosse pericoloso per un giovane affidarsi con leggerezza ad un’apparenza ingannevole; alla slealtà di alcune donne capaci in modo così abile di tendere la rete ai giovani… Io la ascoltavo senza alcuna attenzione, guardando dalla finestra come uno stormo di cornacchie inseguisse un piccolo colombo spaventato. La vecchietta, notando la mia indifferenza verso i suoi insegnamenti materni, si alzò e con sincera premura, disse:

— Mi dispiace per te, veramente, mi dispiace! Tu non vuoi ascoltare la nostra verità, mettiti alla prova: quando asciugherai le lacrime col pugno, sarà tardi!

— Ma è impossibile, zia, è impossibile!.. State ingannando voi stessa oppure me… Lo ripeto, voi non conoscete Zenaida…

— Non ci credi?.. Dovrai credere all’intero bel mondo!.. Chiedi di lei a chi vuoi, vecchi e giovani, uomini e donne, civili e militari; ti diranno tutti una sola cosa: è una civetta, una donna dal comportamento molto ambiguo, tronfia del suo intelletto, capricciosa, orgogliosa, sfrontata…

— Basta, basta!.. Mi farete diventar matto!

— Al contrario, voglio rimetterti la testa a posto. Conosco la tua indole: sei un sognatore incline all’entusiasmo, e quando vieni lusingato dal fantoccio di qualcosa di elevato, puro, angelico, sei pronto a sacrificargli tutto, a compiere per esso persino le peggiori sciocchezze, senza capire se ti inganna o no. Ho paura per te: quella donna è una maestra nel far perdere la testa ai giovani con frasi ampollose sulla sua purezza, sulla sua virtù, sulla sua nobiltà, con le quali si sforza soltanto di mascherare le sue intime debolezze…

— Lei non ha debolezze, zia!

— Se se ne esclude una che ha per… per…

— Ma per chi? Ditelo!

— Beh, magari per te!

Arrossii, e la zia lo notò. Invano cercavo di convincerla che si sbagliava, che Zenaida non mi aveva dato nessun diritto di considerarmi più felice degli altri estimatori della sua splendida anima, che i nostri rapporti erano stati purissimi ed estranei a pensieri volgari. La zia continuava con un sorrisetto:

— Le conosco, amico mio, le donne di questo tipo, le conosco: non parlarmi di loro inutilmente; ne ho viste molte nella mia vita. Non riesco a sopportare le donne che adottano con premeditazione misure volte a convincere tutti e ognuno che sono estranee alle debolezze del loro sesso, perché questo già prova il contrario, che vogliono godere con il cuore come altre peccatrici e nel contempo, passare per innocenti; che si spacciano per donne incomprese, mentre sono solo insipienti, che si fingono femmes supérieuses, creature di una categoria superiore, che si spingono nel fuoco e poi mostrano a tutto il bel mondo che non bruciano. Io credo sia meglio evitare il fuoco, e non cacciarsi in questi giochi pericolosi, che sono sempre pericolosi se non per la virtù, per la reputazione. Se sei una donna pura, virtuosa, innocente, amerai, come si usa nella santa Russia da tempo immemorabile, amerai, madre mia, un solo uomo e ti dedicherai unicamente a lui e non nutrirai alcun interesse verso i giovani spasimanti dell’incomprensibile virtù femminile; non ti abbandonerai in piacevoli conversazioni con loro, non li deriderai, signorina, non farai perdere loro la testa per divertimento, non li porterai sul tuo strascico in un mondo di splendidi sogni per lasciarli poi tra cielo e terra eternamente desiderosi; non infiammerai la loro immaginazione con le meraviglie del tuo spirito in mancanza delle meraviglie del corpo: anche questa è civetteria, ed è ancor più pericolosa, più immorale di quella solita che, mossa dalla vanità, cerca di turbare la quiete di un uomo mediante l’esca della bellezza esteriore. Con la bellezza esteriore, voi, uomini, regolate presto i conti, ma con quella dello spirito, specialmente quando è artefatta, il che capita sempre con quella delle dame che cercano di colpire servendosi di essa, non c’è fine ai tormenti, agli strazi, al dolore. Questo tipo di civetteria è il rimedio più sicuro per uccidere un uomo per tutta la vita, per renderlo inetto a qualsiasi piacere legittimo, per infondere in lui repulsione verso le fonti accessibili della vera, possibile felicità. Il misero spasimante dei tesori invisibili dell’anima li esagera sempre nella sua immaginazione, s’infiamma, precipita nell’entusiasmo, diventa insoddisfatto di tutte le altre donne e di se stesso: ma se gli si permettesse di esaminare ben bene quei tesori, forse, verrebbe fuori che non valgono un soldo bucato. Ma è in questo che sta la forza: queste finte femmes supérieures fanno mostra soltanto delle più fulgide particelle della loro misera ricchezza spirituale, riempiendo abilmente il vuoto considerevole del loro scrigno con frasi pompose a proposito della santità dei doveri assunti, dell’ingiustizia del destino, della malignità della gente. Credimi, amico mio, per una donna sposata di scarso intelletto non c’è niente di più facile che giocare con i tesori dell’anima e del cuore, fingendosi vittima del matrimonio, cosa che ora desta compassione, e non permettendo mai ai patetici spasimanti, in virtù di un finto rispetto verso i propri obblighi, di tracciare un chiaro e sicuro bilancio di queste ricchezze interiori, che potete tracciare, ad esempio, delle bellezze esteriori di una donna. E tale civetteria è un’arma comune tra le donne che hanno già smesso di essere belle o alle quali non è stata donata la bellezza, come alla tua Zenaida Petrovna. Quella donna si lamenta in continuazione di non essere compresa: ma cosa c’è da comprendere? Una donna piena di ghiribizzi, ambiziosa, vanitosa, desiderosa di sembrare a tutti e ad ogni modo inappuntabile rispetto alle proprie compagne, addirittura la migliore del proprio sesso; una donna in una lotta impari con le proprie passioni, che ha sete di piacere e ne rovescia abilmente il calice in un premeditato sgomento non appena la bevanda sfiori le sua labbra, che attrae a sé con tutti i mezzi uomini che si distinguono tra la folla per qualsiasi cosa: per l’intelletto, le doti, la fama, la bellezza, la nobiltà, persino per la bizzarria, per sembrare la più straordinaria tra gli straordinari, e perché tutti parlino di lei. Li abbindola con la sua soffocata grandezza, li abbaglia con le frasi dell’ultimo libro che ha letto, li raggira con sentimenti chimerici, li costringe a seguirla in luoghi irreali, infonde loro speranze, si compiace dello spettacolo del loro curioso entusiasmo, e quando l’ultimo di loro si considera già prossimo alla meta di tutti i sospiri maschili — guarda! — lei già si allontana per monti e valli con un nuovo libro e un nuovo giovane volenteroso di capire le donne incomprese che poi lei dopo un mese abbindolerà, ordinandogli di non menzionare mai il suo nome e di non incontrarsi…

Sussultai. La zia, senza notare il mio scatto, proseguì:

— Quanti hanno preceduto colui che è stato abbindolato, ovviamente, accolgono a braccia aperte nella loro cerchia il nuovo compagno del loro dolore, ma il segreto non resterà per sempre inviolabile tra loro: qualcuno prenderà a lamentarsi, qualcun’altro a deriderlo, un terzo desidererà vendicare sé e suo fratello. Da lì una pessima nomea. Quella donna fa tutto il possibile perché si parli di lei, e poi si lamenta del fatto che si parli di lei! Che pretesa curiosa! Ognuno ha il diritto di parlare di ciò che vede o sente: è affare di coloro che danno adito a voci sul proprio conto impegnarsi affinché nei loro comportamenti non ci sia niente di ambiguo, niente che potrebbe essere interpretato in modo errato. Quale bisogno dovrebbe avere il giudizio del bel mondo di prendere in esame una purezza nascosta se l’aspetto esteriore non è puro? E se tali donne, in base al giudizio del bel mondo, vengono punite più di quanto meriterebbero per i loro delitti, proprio loro ne sono colpevoli. Ma il giudizio del bel mondo di rado cade in fallo...

Durante quel terribile monologo della magniloquente zia, sul mio viso scorreva un sudore freddo. Sentivo a malincuore la giustezza di molti suoi sarcasmi: alcuni di essi, se si giudicava soltanto e unicamente dall’apparenza, si confacevano sorprendentemente alla sfortunata Zenaida. Il dubbio penetrava il mio cuore da ogni lato. Tacevo. Però quando la zia prese a invocare il giudizio del bel mondo in soccorso alla propria arguzia, ad attingere le proprie prove dalla sudicia opinione della folla, l’indignazione s’impossessò di me. Non ressi. 

— Il giudizio del bel mondo!.. Il giudizio del bel mondo? — esclamai adirato. — Cos’è che chiamate giudizio del bel mondo?

— Fosse anche solo il mio giudizio, — rispose lei con freddezza. — Io sono il bel mondo! Zenaida Petrovna non ha alcun diritto di sottrarsi al mio supremo giudizio, così come io non mi sottraggo al supremo giudizio di Zenaida Petrovna! La questione si risolve con una maggioranza di pareri. Quando cento, mille membri del bel mondo, come me, sono d’accordo con la mia opinione, allora la nostra sentenza è stata emessa giustamente, e la colpevole deve essere sottoposta all’autorità della legge. E, forse, la mia opinione è ancor più discreta e più clemente di molte altre opinioni. Io mi baso unicamente su quello che io stessa ho visto, ma c’è gente che afferma di aver visto molto di più…

— Sono dei calunniatori!

— E fanno la loro parte. Per quale ragione Zenaida Petrovna dovrebbe dar adito a calunnie?

— Darebbe adito?.. Lei?.. Quell’angelo di purezza?..

La zia alzò le spalle e uscì dalla stanza.

Da quel giorno il nome di Zenaida non smise di riecheggiare nelle mie orecchie: la notizia del mio amore per lei si era diffusa nell’intero distretto e il suo solo nome era sulla bocca di tutti persino in mia presenza: veniva menzionato in tutti i discorsi, e tutti i pareri su di lei erano contaminati dalle opinioni dei miei familiari. Alcune volte mi capitava di incontrare in società persone vicine a lei per parentela, con le quali lei era cresciuta ed era stata educata, ma neanche loro potevano o volevano esprimere nulla a sua discolpa; al contrario, i loro visi tristi ai discorsi su Zenaida, la loro sollecitudine a cambiare l’argomento della conversazione, erano più pungenti della stessa maldicenza.

Poche persone molto degne di rispetto la giustificavano poiché durante l’infanzia aveva ricevuto i concetti più erronei riguardo ai doveri della donna nei confronti del bel mondo; poiché ben presto era rimasta orfana ed era capitata a casa di una zia incapace di correggere il carattere di una giovane ragazza inesperta. Essi rendevano giustizia al suo intelletto, alla bontà di cuore; alcuni parlavano di un suo nobile comportamento nella vita coniugale; ma migliaia di pareri si sollevavano contro di lei, e io non riuscivo proprio a capire in cosa consistesse la sua nobiltà.

Il bel mondo aveva espresso il suo giudizio. La sua condanna senza appello era ricaduta sulla testa della povera Zenaida. Le era persino proibito difendersi. A dire il vero, alcuni membri dello spaventoso processo, mille volte più terribile di tutte le inquisizioni spagnole, non ne approvarono l’irremovibile mozione: più di una volta mi capitò di sentire due o tre voci che, contrariamente alle dicerie, difendevano calorosamente Zenaida, la ricoprivano di pomposi elogi, la consideravano un modello per le donne. Ma questi avvocati non richiesti erano giovani frivoli, oppure dongiovanni che avevano fatto il loro tempo, per i quali ogni sorriso di una giovane donna richiedeva un’eterna gratitudine. Così come i veleni più potenti e più pericolosi si nascondono sotto le foglioline di fiori deliziosi, anche la calunnia peggiore non di rado si cela dietro gli ampollosi elogi di alcuni. Decantando la donna, alludevano sottilmente, con ogni parola, al fatto che era stato rilasciato loro quel diritto, che erano obbligati a difenderla; e, per far sfoggio della loro magniloquenza, per far mostra di un’idea banale rubata da un libro, presentavano la sua discolpa contro tutte le leggi della morale e non pensavano che la macchiavano, con le loro pietose considerazioni che molti prendevano e poi diffondevano per proprie. Ma in quel momento io non potevo né comprendere, né giudicare a freddo, e confesso che la millanteria di quelle persone, più tenacemente di tutte le calunnie, contribuiva ad ottenebrare la mia mente.

Il terribile veleno del dubbio cominciò a penetrare nella mia anima; allarmata da insinuazioni crudeli, essa rifletteva in modo più sfocato l’immagine un tempo pura, virtuosa di Zenaida. Io non credevo affatto alle calunnie; il mio amore era più solido di esse: al contrario avevo innalzato talmente tanto quella donna sul mondo intero! Avevo cinto la sua amata testa di un’aureola talmente magica che persino gli sguardi e i discorsi umani che giungevano a lei mi sembravano profanare quello splendore! Erano quasi due anni che Zenaida brillava al mio orizzonte come un sole luminoso, splendente; in due anni neanche una nuvola lo aveva oscurato, nemmeno per un istante; come dovevo sentirmi nel vedere, da impotente testimone, che i fumi velenosi dell’opinione della folla offuscavano i suoi raggi, che il giudizio del bel mondo abbatteva su quella nuca meravigliosa l’ignominiosa scure della vendetta per averne trasgredito le disgraziate leggi!

Non mi logorava il sospetto: respingevo ancora con repulsione tutte le accuse immaginarie del bel mondo: ma ero dispiaciuto, straziato, rammaricato! Non soffrivo per me, ma per lei, non soffrivo penosamente, ma in modo dignitoso, nobile, disprezzando gli accusatori. E tuttavia le loro parole risuonavano in continuazione nelle mie orecchie, la mente conservava ostinatamente i minimi dettagli dei racconti, e più di una volta, persino di notte, il loro sibilo serpentino mi svegliava: sobbalzavo con una maledizione e una minaccia sulle labbra, con un’angoscia logorante nel cuore.

Un solo pensiero a volte mi consolava: forse la mia Zenaida e quella di cui il distretto di *** si preoccupava tanto erano due persone completamente estranee l’una all’altra; forse la somiglianza casuale di nomi, condizioni e di alcuni dettagli della vita mi avevano indotto in un errore che sarebbe stato fugato al primo incontro con la moglie del generale N***, a me sconosciuta. E io mi aggrappavo a questo pensiero come ad un’ancora di salvezza, e respingevo con gioia la speranza di vedere Zenaida, preferendo un’eterna separazione alla disgrazia di vederla indegna del mio amore.

— Alla fine la moglie del generale N*** è tornata dal marito, — mi disse una mattina mia zia, — adesso puoi accertarti della veridicità delle mie parole. È arrivata oggi e proprio oggi si dà un ballo per lei presso il capo della divisione; là, probabilmente, la incontrerai. Vuoi venire? Andiamo: tra circa due ore saremo in città…


Un brivido percorse il mio corpo, nello stesso istante la testa e il petto s’infiammarono. “Ti vedrò, Zenaida! Con una parola, con uno sguardo dileguerai in me l’effetto delle ostili maldicenze! Come una volta tenderai la mano a me, che vacillo nella mia fiducia in te, e ti leverai dinanzi a me di nuovo come un idolo, e io, innamorato e felice, di nuovo cadrò ai tuoi piedi!”


Dopo aver ringraziato la zia per avermi avvertito, accolsi la sua proposta, e circa due ore dopo eravamo già in città. Le mie parenti a quell’ora si erano recate nelle botteghe per le rifiniture agli abiti da sera; rimasi solo.

Delizioso era per me il pensiero della vicina presenza di Zenaida, lieta la speranza di incontrarla, ma il cuore palpitava un po’ sofferente nel petto, mi doleva, si affievoliva, come se presentisse una disgrazia. Aspettavo, e allo stesso tempo temevo la serata. Per due volte avevo tentato di precipitarmi da Zenaida. Sapere che era lì, a cento passi da me, e non vederla: quello era un supplizio di Tantalo![2] Afferrai il cappello, feci un passo sulla soglia… E il suo divieto? E la mia parola d’onore? Quella sera una bugia avrebbe potuto dissimularne la mancata obbedienza: l’incontro al ballo si poteva attribuire al caso, ma andare a casa sua!.. La sua influenza su di me era tale che io, fremendo d’impazienza, soffrendo, tormentandomi, gettai da parte il cappello e restai in compagnia dell’unica speranza della serata.

Alla fine l’ansia e la mia impazienza si inasprirono fino alla tortura: non riuscivo a passare un minuto in un solo posto, non riuscivo a fermare né i pensieri, né gli sguardi su una sola cosa, andavo di stanza in stanza, misuravo il tempo con le oscillazioni del pendolo; alla fine, logorato nell’anima e nel corpo, mi fermai presso la finestra.

La strada era gremita di gente, le folle variopinte s’infittivano e si affannavano; io guardavo attraverso il vetro ornato dal gelo, senza pensare, senza vedere. Ecco sfrecciare una slitta: vi è seduta una dama con un cappello bianco, c’è un ufficiale sul sedile posteriore. Apparve e scomparve più rapida di un lampo, mentre io, furioso, mi avventai alla porta, pronunciando il nome di Zenaida. Uscii di corsa in strada: la slitta era sparita; allora, dimenticata la richiesta di lei e la mia parola, mi precipitai sulla prima slitta che vidi e mi affrettai verso l’appartamento del generale N***.

— È in casa la moglie del generale? – chiesi, entrando di corsa nella stanza della servitù.

— È in casa signore, — rispose uno dei servitori, — chi devo annunciare?

Dopo aver detto il mio cognome, entrai, seguendolo, in sala, in salotto; la porta della terza stanza era chiusa. 

— Mi permetta prima di annunciarvi… — mi disse il servitore, temendo probabilmente che avanzassi impetuoso dietro di lui nella camera da letto.

Mi fermai; ma mentre lui entrava e chiudeva la porta dietro di sé, il mio sguardo cadde dapprima sul berretto che giaceva accanto al cappellino bianco, e poi sul suo padrone, quell’ufficiale che avevo visto sul sedile posteriore della slitta. Andava su e giù per la stanza, sbottonando la finanziera e canticchiando una romanza francese, come fosse a casa propria. Poiché ero a due passi dalla porta, udii come il servitore annunciò il mio arrivo. 

— Chi è?.. – rispose una sommessa, tale mi era sembrata, voce tremula, che fece vibrare tutte le mie fibre.

— Il tenente Vlodinskij, — ripeté il lacchè. 

In quello stesso istante risuonò nella stanza una voce di uomo, con tono tra lo spavento e la supplica; egli rapido proferì:

— Cara amica, è lui!.. Mandalo via!.. Non lo ricevere!..

Fuori di me, feci un passo verso la porta: si aprì, e il servitore, chiudendola di nuovo dietro di sé, mi disse in fretta:

— Hanno chiesto di scusarli, oggi non ricevono nessuno.

Lo guardavo, come se non capissi. Penso che nei miei occhi ci fosse un barlume di follia, perché lui mi guardò con stupore, ripeté le sue parole e non tolse la mano dalla serratura della porta finché non mi voltai e, lentamente, meccanicamente, mi avviai nella stanza della servitù.
[...CONTINUA...]




NOTE

[1] Nella mitologia greca Penelope rappresenta la fedeltà coniugale femminile per antonomasia.

[2] Nella mitologia greca Tantalo fu condannato a non poter né mangiare, né bere, nonostante fosse immerso nell’acqua e circondato da frutti pendenti che si ritraevano ad ogni suo tentativo.


ILLUSTRATIONS


1. A. G. Venecianov, portrait of M. N. Stromilova (1820) (courtesy of the Tver Picture Gallery, Тверская областная картинная галерея).

2. A. G. Venecianov, portrait of M. M. Filosofova (1828) (courtesy of Russian Wikipedia).

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